Le donne al potere, fra sarcasmo e utopia
È di Aristofane, come noto, l’idea delle donne che, sia pure con l’ausilio di qualche barba posticcia e intabarrate in mantelli che ne celino le trionfanti peculiarità di genere, prendono il potere e passano a imporre ope legis il più rigoroso comunismo… sessuale!
Idea che però, come ha recentemente dimostrato Luciano Canfora (La crisi dell’utopia, Laterza, 2014) per mezzo di puntigliosi raffronti testuali, è in realtà il ribaltamento satirico di quanto Platone fa dire agli interlocutori nel quinto libro della Politeia in materia di comunanza delle donne, nella città ideale in cui – tanto diversamente, ahinoi, da ciò di cui si ha esperienza… – chi è al potere è filosofo.
Gli sviluppi successivi, di questo primo affiorare di quello che ormai, dal nome dato da Thomas More alla sua non meno visionaria società “perfetta”, siamo abituati a chiamare utopismo, vengono incisivamente delineati da Canfora nella parte conclusiva del suo saggio, fino all’approdare delle generose illusioni volontaristiche iniziali alle smentite deludenti che ha via via imposto la realtà del sistema sovietico.
Senza discendenti, invece, si direbbe rimasta l’idea di Aristofane – giacché, se è pur vero che platonico è il programma politico-sessuale proclamato con implacabile, e perciò sarcastica, consequenzialità nelle Ecclesiazuse, non lo è la conquista del potere da parte delle donne: in Platone, infatti, quello del comunismo delle donne e dell’abolizione, di fatto, di qualsiasi legame famigliare che non sia la reverenza dei giovani verso tutti gli anziani, ognuno dei quali, in teoria, ne potrebbe essere il genitore, è piuttosto uno status quo, già dato -, delle donne che arrivano, esse sole, al potere. A meno che non si tenga conto delle osservazioni di un altro brillante libro, non così recente come il primo, e tuttavia meritevole di essere riconsiderato, proprio alla luce, forse, del modello aristofaneo, che pure esso stesso sembra aver obliterato. Sto parlando di Le donne al potere e altre interpretazioni Boccaccio e Ariosto, di Giorgio Barberi Squarotti (Manni, 2011).
Al posto del farsesco putsch capitanato da Prassagora, l’eroina di Aristofane, c’è in Ariosto un elaborato meccanismo narrativo: tanto per cominciare, sul luogo della città/repubblica delle donne noi veniamo condotti, al seguito di Marfisa e di un altro drappello di cavalieri in navigazione verso la Francia per cooperare a liberarla dai Mori invasori. La rotta tocca Cipro e Pafo – luoghi non a caso consacrati, nell’antichità, a Venere:
Ben si può dir che sia di Vener bella
il luogo dilettevole e giocondo;
che v’è ogni donna affatto, ogni donzella,
piacevol più ch’altrove sia nel mondo:
e fa la dea che tutte ardan d’amore,
giovani e vecchie, infino all’ultim’ore.
XVIII, 139.
Ma un’improvvisa, violentissima tempesta, assale e tiene in sua balìa la nave per ben quattro giorni: consentendo fra l’altro ad Ariosto di sfoggiare un perfetto lessico marinaro (orza, fraschetto, mainare, castello e ballador, oriuol da polve, e così via) che fa pensare al miglior D’Annunzio, o al Pascoli “ornitologo”. Ma sopratutto – è questa l’intuizione pregevole di Barberi Squarotti – di mettere in luce “la ragionevolezza, la misura, la sapienza tecnologica dei marinai e del capitano”: elemento chiaramente umanistico, dunque. Ancor meglio, nel riferire le discussioni dei marinai circa il luogo in cui la tempesta li ha sbalestrati, il poeta mostra la sua attenzione “per l’ordine o il disordine politico, le costituzioni degli Stati, le convocazioni dei cittadini o dei rappresentanti”: siamo insomma introdotti alla tematica politica della città in cui stiamo per entrare, dislocata, non senza qualche vaghezza,
Nel golfo di Laiazzo, invêr Soria
XIX, 54.
E la descrizione della sua impostazione urbanistica, del suo porto perfettamente falcato, delle catene che pronte si tendono per chiudervi dentro le navi a cui si vuole impedire la ripartenza, “è la descrizione di una città ideale”, la dimostrazione della capacità di chi vi abita “di costruire una città, di fortificarla, di ordinarla secondo le norme dei migliori architetti e urbanisti”. Una Utopia bella e buona, in sostanza: “il fatto che la città abbia l’impostazione dell’urbanistica ideale tipicamente rinascimentale è in relazione con la ragionevolezza della costituzione e delle leggi che la reggono”.
Sono, a onore del vero, leggi dominate da un’agghiacciante, ferrea coercitività: chi vi approda viene quasi all’istante circondato da un esercito di donne in pieno assetto di guerra, e condotto in carcere; il solo modo di evitare la morte sta nell’accettare di battersi in campo con dieci fortissimi campioni e, una volta uccisili tutti, soddisfare poi a letto altrettante donne. Ma, anche in caso che uno ce la faccia, ottiene, sì, salva la vita, però non può più ripartire, aggiogato in perpetuo alla promiscuità sessuale con le dieci donne che pure ha soddisfatto, per quanto possa poi venirgliene sazietà,
che non è soma da portar sì grave,
come aver donna, quando a noia s’have.
XX, 20.
A spiegarci l’instaurarsi dell’assurdo, orwelliano ordinamento – in mancanza della progettualità idealistica da cui sono mossi gli interlocutori della Politeia platonica –, Ariosto adibisce le passioni umane, cedendo in proposito la parola a ben due diversi narratori intradiegetici. Dal primo, il capitano della nave, che deve dar conto, agli esterrefatti passeggeri, della sua esitazione a entrare in quel porto, in cui lui solo sa cosa li aspetta, apprendiamo che, a presiedere all’instaurazione della sanguinaria contro-utopia, per di più attraverso metodi di rigorosa eguagliaza democratico-deliberativa (E proponendo in mezzo i lor pareri, […] diceano […]. Altre diceano […], redarguendo di tutte altre il detto, / suo parer disse, e fe’ seguirne effetto: e non sfugga il ricalco dell’impianto assembleare del coup d’état aristofaneo!) è stata la vendetta: le fondatrici erano donne di Creta, invaghitesi della bellezza e della foga amorosa degli uomini al seguito del guerriero Falanto:
[…] alle belle donne, al primo tratto
che v’apparir, trassero i cor del petto.
[…] non men che belli, ancora in fatto
si dimostrâr buoni e gagliardi a letto
XX, 16.
Alla fine della campagna militare, dunque, le donne decidono di seguirli, oltre tutto aggravando la loro posizione col furto preventivo
di ricche gemme e di gran summa d’oro
che devono servire ad assicurare loro la sopravvivenza. “È, – commenta Barberi Squarotti – a ben vedere, una forma di meretricio all’opposto: a essere pagati perché amoreggino non sono le donne, ma gli uomini. C’è un che di contraddittorio rispetto le consuetudini mondane”; ma c’è anche un avvicinarsi, molto più di quanto l’autore stesso si avveda, alla situazione aristofanea.
Come non bastasse, se è vero che “siamo nella rappresentazione esemplare della follia del mondo e dei delitti che l’accompagnano”, molto presto, passati i primi giorni di smemoramento erotico nella nuova terra (questa spiaggia, inabitata allora), quei gioielli e quell’oro diventano oggetto del simmetrico furto da parte degli uomini: questi infatti, certo con una proverbiale slealtà – che duplica il Teseo del carme catulliano -, ma magari con più spassionata valutazione dei propri limiti,
vider ch’a pascer tante concubine,
d’altro che d’aste avean bisogno e d’archi
XX, 21,
cioè dei proventi della professione di mercenari (ma è indubbia, la maliziosa ambivalenza dell’espressione…), e tagliano la corda, con appresso tutto il tesoro.
Ecco dunque radicata con perfetta ragionevolezza entro la dinamica dell’umana passionalità la genesi della legislazione ferocemente risarcitoria. “La costituzione del potere delle femmine omicide è – nella sua spietatezza – ragionevole e logica”; anzi, ed è felice intuizione di Barberi Squarotti: “si tratta di un’esemplificazione della crudeltà necessaria per il consolidamento dello Stato nuovo, come nel Principe di Machiavelli”. Proprio per questo motivo, dunque, al di là di qualsiasi strategia di racconto noir, “è molto significativo il fatto che Ariosto racconti con tanta ampiezza la vicenda dello Stato fondato e governato con saggezza e rigore da sole donne, proponendo al lettore l’idea della teoria del potere e dello Stato di assoluta concezione utilitaria, senza alcuna intrusione di religione e moralità”.
Ma che le cose non siano in realtà così perfette, e nonostante che all’esordio del XX Canto Ariosto stesso si spenda, con esempi tratti dall’antichità (qualunque all’istorie abbia avvertenza / ne sente ancor la fama non oscura), in favore delle donne:
Le donne son venute in eccellenza
di ciascun’arte ove hanno posto cura
XX, 2,
lo dimostra il modo in cui poi le donne stesse verranno costrette a introdurre mutamenti nelle leggi, sulla spinta delle proprie stesse pulsioni sentimentali, come ci rivela il secondo dei narratori intradiegetici, il decimo ed ultimo dei cavalieri che Marfisa, schermata dalla sua armatura virile quanto, prevedibilmente, manchevole ne la seconda giostra de la sera, ha sfidato e abbattuto, e che ha nome Guidon Selvaggio.
Egli racconta, durante il riposo che il calar della notte ha concesso alla sfida mortale fra i cavalieri, di essere stato a sua volta vincitore in entrambi i tipi di “giostra”; eppure,
Così fossi io con lui morto quel giorno,
prima che viver servo in tanto scorno.
Che piaceri amorosi e riso e gioco,
che suole amar ciascun de la mia etade
le purpure e le gemme e l’aver loco
innanzi agli altri de la sua cittade,
potuto hanno, per Dio, mai giovar poco
all’uom che privo sia di libertade.
XX, 61-62.
Sono versi di splendida, umanissima sincerità; nonché di una “serietà” che sicuramente mancava allo sbrigliarsi dell’acre fantasia satirica di Aristofane: questo innamoramento invincibile per la libertà, oltre a rendere possibile lo scioglimento del nodo narrativo, al modo / che fe’ Alessandro il gordiano nodo, con la liberazione dei prigionieri – facilitata, per altro, dall’intervento del magico corno di Astolfo che, coi suoi effetti orripilanti, annichilerà qualsiasi velleità di difesa delle guerriere assassine -, conferisce infine all’episodio ariostesco un’esemplarità molto più elevata, ci sembra, perfino dell’affinità che così acutamente Barberi Squarotti rileva con il pensiero machiavelliano.