“Diritti di passaggio” di Kamau Brathwaite
Recensione di “Diritti di passaggio” di Kamau Brathwaite.Diritti di passaggio di Kamau Brathwaite (traduzione e cura di Andrea Gazzoni, Ensemble, 2014), in uscita a ottobre, è al tempo stesso una preghiera di guerra e una richiesta radicale di pace, o almeno di tregua, un blues del lavoro e un canto di vagabondaggio, un poema del ritorno e dell’esilio.
Pubblicato nel 1967, Rights of passage, diritti, ma anche “riti” di passaggio, come fa notare Gazzoni nella postfazione, inizia una trilogia, The Arrivants del 1971, che si completerà con i poco posteriori Masks (1968) e Islands (1969), presa di coscienza della maturità su una identità divisa fra Africa, Europa e America. Kamau Brathwaite è infatti uno dei maggiori esponenti della cultura caraibica. Formatosi in Inghilterra con una borsa di studio universitaria, professore di letteratura comparata a New York, è tra i fondatori degli studi post-coloniali con alcuni saggi sulla creolizzazione della nativa isola di Barbados, a nord delle coste venezuelane.
Ed è, il suo, un linguaggio creolo anche stilisticamente, alla ricerca di sé, sviluppato su uno spartito e su una geografia incredibilmente ampia, che mescola la cultura americana degli anni Sessanta, la prevaricazione e le lotte per i diritti, con qualcosa di più ancestrale che non sia soltanto la descrizione del dolore e del conflitto. Quello che si avverte nel passaggio fra le pagine di questa raccolta, pubblicata quasi cinquant’anni fa, e che sorprende oggi per la spregiudicatezza e la violenza dello slang, è il dubbio di una lotta con e contro se stessi, complicata da quell’urgenza materiale che rende simili tutti gli indigenti del mondo, rivolgendosi intorno come l’esplosione di una voce che smette di essere interrotta, e per ritrovarsi vuole pregare, minacciare, implorare, gioire, cantare…
Il fantasma del dubbio e del sospetto sono al centro di questa raccolta, e tiene a battesimo la voce poetica di Brathwaite, raccontando l’inizio di una storia dell’occidente, che è, anche per l’uditore italiano cui si vengono a proporre questi versi, la descrizione di una parte della sua stessa quotidianità: Where then is the nigger’s / home? / In Paris Brixton Kingston / Rome? / Here? / Or in Heaven? / What crime / his dark / dividing / skin is hiding? (E la casa del negro / ha un nome? / Parigi Brixton Kingston / o Roma? / E qui? / O su in Paradiso? / Quale crimine / la sua pelle / scura / che divide nasconde? p. 183).
E come una malattia il dubbio passerà al lettore, che non potrà fare a meno di sentirsi implicato, almeno di sfuggita, nella discendenza che Brathwaite ricostruisce evocando luoghi reali o mitici dei tre mondi da lui attraversati, anche a distanza di tempo, anche quando queste poesie (che sarebbe impossibile leggere senza il testo a fronte in inglese) andranno contro un gusto estetico riaggiornato, affrancato dall’eterno revival dei Sessanta. In Diritti di passaggio si viene a ristabilire una gerarchia di valori forte, a cui forse il lettore di poesia potrebbe essere disabituato, e che forse, in parte, ha contribuito e contribuisce all’immobilità del genere:
[…] Rain drips
from the trees
in the dawn;
in the morning,
bird
calls, green
opens a crack.
Should you
shatter the door
and walk
in the morning
fully aware
of the future
to come?
There is no
turning back.
[…] Pioggia gocce
dagli alberi
all’alba
al mattino,
l’uccello
chiama, il verde
apre una crepa.
Dovresti fracassare
la porta
e camminare
al mattino
consapevole in tutto
del futuro
che viene?
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non torni (p. 203).