“Dio di illusioni” di Donna Tart
Recensione di “Dio di illusioni” (Bur) di Donna Tart.
Un piccolo raffinato college nel Vermont. Cinque ragazzi ricchi e viziati e il loro eccentrico e affascinante professore di greco antico, che insegna al di fuori delle regole accademiche imposte dall’università e solamente a una cerchia ristretta di studenti. Un’élite di giovani che vivono di eccessi e illusioni, lontani dalla realtà che li circonda e immersi nella celebrazione di un passato mitico e idealizzato, tra studi classici e riti dionisiaci, alcol, droghe e sottili giochi erotici. Fino a che, in una notte maledetta, esplode la violenza. E il loro mondo inizia a crollare inesorabilmente, pezzo dopo pezzo. Una storia folgorante di amicizia e complicità, amore e ossessione, colpa e follia, un romanzo di formazione che è stato uno dei più grandi casi editoriali degli anni Novanta.
Ho sentito parlare di Donna Tart da Twitter, e tutti ne erano entusiasti dopo averlo letto. Non potevo non prendere una copia di Dio di illusioni.
Dio di Illusioni è l’esordio di Donna Tart, anche se credo che lei sia nata scrittrice: non si può essere così minuziosamente attenti ad ogni dettaglio, a raccontare così bene tutte le sfumature dei protagonisti. Scrittori, forse si nasce, e Donna Tart è nata scrittrice.
Nel libro sono presenti milioni di riferimenti a una cultura da lei posseduta che farebbe invidia a chiunque: parla con scioltezza di Euripide, Platone, Nietzsche, Omero. Cosa che non è da tutti.
Il libro si presenta enorme e fa quasi paura iniziarlo, vedendo tutte quelle pagine.
Devo dire che è stata un’esperienza unica leggerlo, con tutte le sue 600 pagine. Per di più è uno di quei romanzi che iniziano dalla fine, che a mio parere sono molto più intriganti di altri.
Non annoia mai, nonostante la lunghezza; anzi si ha subito voglia di continuare a leggere tutte le pagine fino ad arrivare alla fine.
Solo che arrivare alla fine del libro ti lascia un senso di vuoto, dopo esserci entrato dentro, dopo essere entrato dentro alla filosofia, alla cultura che il libro racconta a quei riti dionisiaci a cui i protagonisti del romanzo partecipano; ti lascia l’amaro in bocca e vorresti solo ricominciare a leggerlo di nuovo. Ora capisco perché Donna Tart abbia vinto il premio Pulitzer nel 2014.
Quando finisci di leggere il libro, rimani stupito da come, oramai, la storia ti sia entrata dentro.
Io mi immagino i protagonisti vicino a me a bere drink, fumare e parlare di greco antico.
Mi immagino Richard, il narratore della storia, bugiardo e di origini umili, che cerca di sembrare ricco come gli altri protagonisti indossando vestiti di seconda mano. Francis, che tra i suoi amici può permettersi di non nascondere la sua sessualità; i gemelli, Charles e Camilla, descritti come angeli, sempre vestiti di bianco e circondati da quell’aurea di delicato e sublime; Henry, ricco e disinvolto e sempre più intelligente degli altri; infine Bunny, il ragazzo assassinato, e ciò è già svelato alla prima pagina (dato che il libro inizia dalla fine).
Iniziando dalla fine il romanzo, svela tutto quello che succede prima dell’omicidio di Bunny, le indagini della polizia, l’arrivo dell’FBI e dell’influenza dell’insegante di greco antico Julian, che rimane sempre nell’ombra, anche se forse è il vero burattinaio dei protagonisti suoi allievi.
Arrivare alla fine del libro ti lascia un senso di vuoto, dopo esserci entrato dentro, dopo essere entrato dentro alla filosofia, alla cultura che il libro racconta a quei riti dionisiaci a cui i protagonisti del romanzo partecipano; ti lascia l’amaro in bocca e vorresti solo ricominciare a leggerlo di nuovo.