“Dettato” di Sergio Peter
Recensione di “Dettato” (Tunué, 2014) di Sergio Peter.
Sicuramente Peter è uno scrittore che ha voce, e Dettato l’ottimo esordio di un narratore per cui (Calvino, Celati, Zanzotto) si indicano precedenti di serie A. In nome dello sconfinamento che sta alla base della collana Tunué “Romanzi” (la casa editrice di Latina si è fatta un nome nel campo della graphic novel), Dettato potrebbe essere definito la storia di un paesaggio, e più precisamente del paesaggio montano e lacustre nei pressi di Como, non lontano dalla Luino di Vittorio Sereni (lo sfondo della sua prima raccolta poetica, Frontiera) le cui prose, forse, si potrebbero citare in causa per parlare anche di questo libro, e di questo modo di scrivere.
Va da sé che la forza del romanzo è un po’ anche il suo limite. Il fatto cioè di non seguire una vera e propria trama su e giù per le salite della memoria in cui il bambino-autore ci accompagna per farci conoscere le persone che per lui sono care e importanti, confondendo amicizia, paese e famiglia, e in effetti questa storia potrebbe non essere consigliata per chi ama la fiction dura e pura, in cui vengono rispettate tutte le regole di una narrazione di eventi. Molto spesso il tono memorialistico o da diario d’infanzia si scioglie in passaggi di poesia, mescolando prosa e versi in un tutto unito che di certo suscita interesse.
Se comunque nei passaggi narrativi più coerenti Peter concede il meglio della sua voce assorbendo le parlate, i dialetti, il tono colloquiale, manca una struttura complessiva, per cui di tanto in tanto non si ha bene idea di “dove l’autore vuole andare a parare”. Va anche detto però che bisogna essere grati alla freschezza di un tentativo che promette bene, in cui il tono seppia non toglie niente alla nitidezza dei sentimenti: vergogna, sensibilità, ma anche un tipo di crudeltà gelida e senza appello, come nella pagina in cui tutta la gioventù del protagonista si scaglia senza un perché apparente su alcuni poveri gatti, e poi su delle lumache:
Oppure, quando piove, andiamo a caccia di sbërch, i lumacotti arancioni senza guscio, li cerchiamo sull’erba umida, li raccogliamo tutti insieme con la paletta e poi, riuniti in mezzo alla mason, dopo averli nutriti ed illusi per qualche giorno con l’insalata, quando sono belli grassi li prendiamo, pelosi e stantii nella deambulazione, e li cospargiamo di sale, cosicché dopo pochi secondi si sciolgono uno ad uno e resta giù soltanto una poltiglia schifosa che poi ricopriamo con la segatura. (p. 67)
Peter conosce bene il dolore, per averlo sperimentato in quella che molto freddamente si può definire la sua biografia, e la ricerca di una ragione a questo dolore muto e cieco potrebbe essere una buona strada per avvicinarsi ai significati nascosti del romanzo. Quando il bambino sensibile e ingenuo perso nella memoria assume una controluce spietata, propria solo dei bambini, e si rivolta contro il suo stesso dolore, passandoci e ripassandoci sopra con il pensiero, come fa la lingua sulla pustola del labbro, allora si riconosce il volto, non più infantile, del narratore.
Anche se è un piccolo libro, e la prima stazione di un cammino che si rivela forse non così agevole, Dettato chiude in sé un universo intero, complicato come la vita nuda di un paesino d’alta montagna, in cui si succedono personaggi che non sono tali perché sono persone, e storie che non sono storie perché sono vita, nel progetto piuttosto ambizioso di chi non vuole forzare il lettore.
Per ora l’oggetto frantumato non si è ricomposto del tutto, lascia qua e là smagliature che non sono solo “sconfinamento”, ma in futuro crediamo di poter tornare a parlare di un romanziere che ha risalito la fonte del suo dettato interiore.
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