"Dei modi e costumi d'Italia" di Giuseppe Baretti (traduzione e commento a cura di Matteo Ubezio)

“Dei modi e costumi d’Italia” di Giuseppe Baretti (traduzione e commento a cura di Matteo Ubezio)

Articolo a proposito di “Dei modi e costumi d’Italia” di Giuseppe Baretti (traduzione e commento a cura di Matteo Ubezio – prefazione di Michele Mari).

Dei modi e costumi d’Italia di Giuseppe Baretti, per la cura di Matteo Ubezio, recupera integralmente alla nostra letteratura un tassello ricostruito nei secoli passati in maniera imprecisa o parziale, continuando ed arricchendo un lavoro che negli ultimi anni ha visto notevoli avanzamenti, e per cui tuttavia rimane molto da fare, posto il lavoro di maestri come Franco Fido, e le ricognizioni più recenti, fra cui si collocano le notizie e gli inediti del primo Baretti inglese che Francesca Savoia ha offerto nel suo Fra letterati e galantuomini (Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2010) meritevole di citazione estesa.

Composto da trentanove capitoletti descritti da un sommario riassuntivo, e preceduti dalla dedica al conte di Charlemont, la prima edizione dell’Account of the Manners and Customs of Italy apparve a Londra nel febbraio del 1768 in due volumetti in ottavo, pubblicato da T. Davis, L. Davis e C. Rymers. L’intento dell’opera era quello, con il pretesto di rispondere punto su punto alle Letters from Italy, resoconto di viaggio poco cordiale se non infamante scritto dal chirurgo inglese Samul Sharp, e recepito dagli ambienti cittadini con una certa sensazione, di invitare e educare il viaggiatore straniero al grand tour italiano. Orgoglio nazionale, polemica letteraria, descrizione geografica, sociale e antropologica si mescolano in questa veduta a volo d’uccello della patria natia, senza escludere naturalmente il calcolo di un guadagno effettuato a bella posta da Baretti, che non perde l’occasione di entrare nell’agone letterario con una buona riuscita di vendite, per cui gli editori appronteranno una seconda edizione dell’opera comprensiva di un’Appendice polemica in risposta al contrattacco dello Sharp.

Insieme alla Prefazione di Michele Mari, che offre una lettura preliminare dell’opera inquadrandone efficacemente i motivi di maggiore interesse, e alla Nota del curatore dove si riassume la storia delle edizioni e delle traduzioni, Dei modi e costumi d’Italia si pone, agli occhi del lettore moderno, non necessariamente specializzato, come una lettura gradevole e curiosa, che lo porta alle origini di una modernità nazionale, che per essere nella sua ultima fase pre-unitaria, conserva nitidamente i tratti di una storia secolare giunta all’esaurimento. Un utile Indice dei nomi e un commento puntuale a quei luoghi dell’Account che potrebbero risultare ostici al lettore postumo rendono la lettura scientificamente attendibile, dati anche i continui rimandi bibliografici alle opere che indagano il costume settecentesco.

La “nazione di nazioni” che si configura come Italia viene percorsa dall’occhio capriccioso e peculiare di Baretti, pronto a soffermarsi per pagine su un dettaglio che lo colpisce, accumulando temi di dibattito e digressione unite solo dal filo rosso della smentita delle affermazioni di Sir Sharp, viaggiatore malato, ignorante e impaziente, ridicolizzato con un effetto martellante di citazione e negazione che risulta decisamente comico, denunciando tra l’altro il forte tasso di letterarietà che rende l’opera barettiana, imparziale sulle questioni d’attualità, ben equipaggiata contro i pericoli del tempo, come le edizioni moderne continuano tacitamente a dimostrare.

L’opera, composta sul negativo del continuo controbattere che gli fa assumere la fisionomia della disputa più che del trattato, non affronta d’impianto «né l’Italia né gli Italiani, ma i pregiudizi che li riguardano», come fa notare Mari (p. xii). Ecco allora che devono essere salvaguardati quei modi e costumi che costituiscono la parte basale di una cultura rivendicata dalle radici, la gentilezza nei riguardi degli stranieri, l’onestà e mitezza del popolo, l’avanzamento dell’agricoltura e delle infrastrutture, l’allegria delle genti di tutte le regioni (fuorché il Piemonte), e ancora, l’onestà delle donne e dell’apparato ecclesiastico oltre al lavoro degli intellettuali, per cui si offre addirittura un elenco di nomi e cognomi al capitolo «Uomini dotti che attualmente vivono in Italia non immeritevoli dell’attenzione dei viaggiatori inglesi», per arrivare sul finale a «Qualche suggerimento per gli inglesi che viaggiano in Italia».

È d’uopo precisare che Baretti non è un avvocato difensore ingenuo, e che il complesso di questa difesa sostanziale, trasformata in invito, è reso problematico da una consapevolezza ben forte dei limiti e dei vizi della sua nazione, per i quali lui stesso si trova a vivere in terra straniera, definitivamente auto esiliatosi da un ambiente vissuto come ostile, diventato invivibile dopo l’esperienza della Frusta. Anche i vizi degli italiani, sui quali è da segnalare una certa diplomazia, specie in ambito letterario, sono però ridotti ad argomento d’incomprensione da parte di Sharp, teorizzando addirittura una inadeguatezza del rivale al viaggio, tornando a più riprese sulla sua ignoranza della lingua.

Se lo studioso dovrà tenere presente il quadro della situazione rilevando le forzature barettiane nel tratteggiare un viaggiatore in realtà meno sprovveduto di quanto si voglia dare a intendere, il lettore comune può divertirsi liberamente nel seguire i movimenti sgraziati di questo goffo visitatore, eccitato dal tono tutto in battere di una lingua riprodotta con cognizione di causa da Ubezio, aiutato anche dal Dictionary of English and Italian Languages, il fortunato dizionario compilato da Baretti nel 1760 e valido fino all’Ottocento.

Verrà così ad ampliarsi la cognizione, o a soddisfarsi la curiosità, su un gran numero di dettagli della vita di tutti i giorni condotta da nobili e popolo sullo scorcio del secolo XVIII, come ad esempio le varietà d’abiti, i giochi di carte e gli sport, o «giochi del genere palestrale», in uso nelle varie parti d’Italia. Spiccano fra questi ultimi il Pallone e il Calcio, in cui «i giocatori colpiscono la palla con uno strumento di legno chiamato Bracciale» (p. 367) cercando di farlo cadere nella porzione di campo occupata dalla squadra avversaria, o la Battajola, combattuta sotto le mura di Torino e abolita da Carlo Emanuele III nel 1737, in cui «le due fazioni si scagliavano pietre l’un contro l’altra con le fionde per diverse ore con una foga e un furore indescrivibili» (p. 372), o ancora la corsa di carri tirati da buoi ubriacati di vino. Una varietà di particolari, insomma, che dipingono il fermento di una nazione sufficientemente lontana per non essere più naturalmente riconoscibile.

«Quando dopo un’assenza di sei anni feci ritorno in questo regno, una giovane gentildonna di mia conoscenza si complimentò con me perché avevo abbandonato il mio brutto paese. Perché, Signora, dissi, chiamate brutto un paese che non avete mai veduto?» (p. 442). Con questa parole Baretti descrive la nascita dell’Account, dopo essere venuto a contatto con le Letters from Italy che stavano diffamando l’immagine dell’Italia. Almeno nell’intenzione prima, dunque, il motivo sembra essere quello di un orgoglio ferito, e del susseguente obbligo morale a cercare soddisfazione nella tenzone letteraria di un torto sentito come personale.

Siamo nell’ambito del gioco letterario, naturalmente. Ciononostante, a due secoli e mezzo di distanza, in un’Europa unita e solidale, lo scatto d’orgoglio del gentiluomo italiano che in terra straniera difende l’onore della patria, un’immagine generosa, che potrebbe confluire nella parte del preromanticismo barettiano, può continuare ad essere, tolte imprecisioni e parzialità, un motivo seducente per qualche lettore che pure non appartiene alla cerchia degli specialisti, offrendo a questo Dei modi e costumi d’Italia aggiornato al nuovo millennio, una valida possibilità di ulteriore circolazione.

Baretti