“Così nuda”, la poesia plurilingue di Barbara Serdakowski
Per poter apprendere e godere appieno della poesia plurilingue di Barbara Serdakowski, è necessario avere un’idea della sua vicenda esistenziale a dir poco labirintica. Nata in Polonia nel 1964, a soli due anni lascia la terra natia per trasferirsi in Marocco con la famiglia; durante questo periodo, sono frequenti i viaggi in Spagna e in Italia, fino a un altro importante cambiamento: il Canada. Barbara compie infatti gli studi a Montreal, poi vive ad Haiti e in Venezuela e infine approda a Firenze, città scelta come propria casa, e all’italiano come lingua di espressione.
Ovviamente, un elenco di località non è sufficiente a spiegare e a far comprendere il senso di sradicamento che si cela dietro ogni nuovo viaggio e destinazione. Si sbaglierebbe, infatti, a pensare che questo nomadismo sia felice, e che cambiare di volta in volta lingua sia un’operazione tanto piacevole quanto leggera. Per l’autrice di Così Nuda (Edizioni Ensemble, 2012), l’apprendimento delle lingue non è altro che la dimostrazione concreta di una vita da migrante; il senso di appartenenza che scaturisce dalla naturale acquisizione della madrelingua, in lei si perde: è un soggetto formato da tante lingue diverse ma è come se, in un certo senso, non le appartenesse nessuna. La necessità di appartenere (sempre frustrata, perché negata all’origine) suscita manifestazioni linguistiche dolorose, come nell’occorrenza dello stesso verbo “appartenere”, presente in queste pagine.
Ecco spiegata, in parte, la poesia plurilingue di Barbara: nell’impiegare versi di lingue differenti, è come se lei indagasse se stessa, le sue profondità; utilizzando tutte le lingue a lei conosciute, la poetessa cerca in verità quella che sente più sua, in cui riesce a esprimere meglio i pensieri e i sentimenti che albergano nel suo animo. Ma è un percorso senza fine, la ricerca di un’unicità che non esiste. Ecco allora che le lingue diventano equivalenti, interscambiabili perfino: invece di non sentirne nessuna come “propria”, l’autrice le accetta tutte, come parte di sé. Invita infatti il lettore a non distinguere una lingua dall’altra, dicendo che “la traduzione [in italiano] non è eco, ma una voce che lega tutte le altre”.
Tuttavia, nonostante questa dichiarata uguaglianza tra le lingue impiegate, non si può fare a meno di notare la peculiarità del polacco, usato raramente ma sempre come lancinante richiamo alla ferita originaria, al dramma del distacco. Le varie lingue hanno quindi diverse valenze; è la capacità dell’autrice che ce le fa avvertire come uguali, come voci di un unico discorso; anzi, l’impressione è che senza tutte queste voci, il messaggio non arriverebbe con altrettanta chiarezza e forza.
Si noti, infatti, come il verso in lingua straniera e quello con la relativa traduzione in italiano siano una sorta di “enjambement”, un continuum che riproduce “l’effetto tipico dell’inarcatura”, quel senso di apnea che “sorprende il lettore con l’a capo” (dalla prefazione di Ugo Fracassa). Si ha allora l’impressione che, tra verso e verso, l’a capo non sia senza residuo, che alla fine di ogni verso si nasconda come una sorta di non-detto, e che sia l’accumularsi di tutti questi non-detto a costituire l’enigma dell’intraducibilità e a celare il vero messaggio della poesia plurilingue della Serdakowski.