Cos’è la “sicilitudine”?
Cos’è la sicilitudine? Categoria metafisica, condizione esistenziale, o stato antropologico dell’essere siciliani?
Comunque la si voglia intendere, essa fa pensare a un ghetto, a una prigione-dorata, quanto si vuole-ma pur sempre una gabbia di separatezza e di esclusione.
Di sicuro Sciascia, siciliano di mare aperto con forti radici nella sua terra, e diviso da un tormentoso odi et amo nei confronti di essa, non intendeva, parlando di sicilitudine, relegare i siciliani in una ‘monade senza porte e senza finestre’. Tutt’altro: il Maestro di Regalpetra parla di Sicilia come metafora del mondo.
Spesso però il termine in questione viene utilizzato per rivendicare nel bene e nel male una specificità, anche se non localistica, della letteratura siciliana e della cultura isolana in senso lato, quasi un’appartenenza che, se non separa, isola.
Si può essere intellettuali, scrittori, pensatori, poeti, artisti, di respiro sovranazionale, come lo sono stati e lo sono i nostri – Pirandello, Verga, Sciascia, Borgese, Vittorini, Lampedusa, Bonaviri, Quasimodo. Lucio Piccolo. E Brancati, Bufalino, Consolo, D’Arrigo, Sgalambro, l’erede lentinese di una tradizione di pensiero che risale a Gorgia e ai sofisti- senza cessare di essere siciliani?
L’identità siciliana è un’identità insulare, ma di un’isola senza giurisdizione e confini definibili. Identità di mare aperto, e di terra: aspra, dura, severa, eppure accogliente, ospitale.
Di duplice polarità e di contrasti: di luci e di tenebre, di comico e tragico, di canto e disincanto, di poetica visionarietà e di freddo impoetico raziocinare. Di miti ancestrali, di memorie oscure che affondano nella notte dei tempi, e di luoghi e topoi di luminosa grecità.
Una terra dove anche la natura sprofonda nel mito, e il mito convive con la storia e la memoria, come nel Caos delle origini.
“Soffre la Sicilia di un eccesso di identità, né so, se sia un bene, o se sia un male. Certo per chi c’è nato dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non saper districare tra mille curve e intrecci del sangue il filo del proprio destino” ( Gesualdo Bufalino).
Da qui un fatalismo pagano, greco, non provvidenzialistico, che malconvive con un senso della morte come “sopercheria”e “scandalo” E per contro una confidenza, una familiarità con la morte quasi scaramantiche, un coabitare e trafficare coi morti in singolare promiscuità, feconda di visioni, sogni, ubbie
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”[…] “Non nego che alcuni siciliani trasportati fuori dall’isola, possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è gia tardi; la crosta è già fatta”.
Checché se ne voglia dire del celebre discorso di Don Fabrizio al senatore Chevalley- e tanto si è detto pro e contro- resta il fatto che non ci vuole molto a riconoscersi in questo identikit di idealità astratta, inconcludente, parolaia e selvatica. Una forma di accidia, di oblomovismo, che potrebbe essere il risvolto di un iperattivismo introspettivo, di una esuberanza della fantasia incontenibile, sì da generare ingorghi e blocchi dell’agire.
Una sicilitudine che costituisce un tratto distintivo dei siciliani, e però si pone come metafora di una condizione esistenziale di universale valenza. Non habitus antroplogico, ma figura di simbolo, di letteratura.
Non a caso la letteratura del novecento deve molto, anzi moltissimo alla sicilitudine come rappresentazione e commedia umana.
Non a caso in questa mitica terra è nato Giuseppe Bonaviri, la sua scrittura, la sua poesia intrisa di tutti gli umori, i sapori, i profumi, la fisicità dei suoi luoghi, eppure così eterea, immateriale, così originaria e universale.
Bellissimo articolo… quanti siciliani dimenticati ritrovo qui citati! Quando ad alimentare la memoria letteraria è il web dobbiamo davvero ammettere che gran parte della buona critica letteraria nob si fa più prevalentemente sui libri
Grazie, Camilla di aver apprezzato e riconosciuto l’apporto alla patrie lettere di scrittori siciliani, che, senza smentire la loro sicilitudine, appartengono al mondo
Da siciliana riconosco nelle Sue parole l’essenza della sicilitudine, l’inesorabile miscela di fatalismo e leggerezza, apparente superficialità e passività e profondo e corroborante sentimento della tragicità dell’esistenza.
Da siciliana, amo e odio la mia terra; la amo quando ne sono distante, quando vi fuggo per respirare altrove e ne sento la mancanza, la odio quando i miei piedi la calpestano e mi sento lontana, isolata, fuori dal mondo, in un grembo che attenua tutti i rumori della vita moderna, attiva e presente.
Grazie per queste stimolanti riflessioni!
Grazie a Lei, Matilde, per questo riscontro.
La nostalghia- il dolore del ritorno- è un comune sentire, un modo di estrinsecarsi della nostra spiritualità. Il sublime, che sgomenta, toglie il respiro, schiaccia l’anima con tutto il suo carico insostenibile di bellezza, domina sovrano nell’Isola. Non il bello, che rilassa, pacifica, consola, riconcilia col mondo e con sé stessi.
L’odi et amo nasce dalla lacerazione di questi contrasti.
Vincenzo Consolo ha rappresentato a livelli di alta poeticità nelle sue opere questa condizione tragica di divisione dell’io. Veniva spesso in Sicila, pur vivendo a Milano e ogni ritorno era un nostos, e lui, “un ulisside” scisso tra il desiderio struggente della sua Itaca e la voglia di fuggire, di trovare scampo a quella sorta di malattia che è la sicilitudine.
Non potevo non condividere in FB
Grazie
leopoldo attolico –
Grazie della condivisione
Anna Vasta