Conversazione con Leone Piccioni
Leone D’Ambrosio intervista Leone Piccioni, che sta per festeggiare i Novanta anni. È considerato uno dei maggiori critici letterari viventi.
Leone Piccioni compie novant’anni. Uno dei più grandi critici letterari vivente nasce a Torino il 9 maggio del 1925, romano d’adozione è stato allievo di De Robertis e di Ungaretti, laureandosi con una tesi sulle Dieci canzoni di Giacomo Leopardi. Novant’anni portati bene e con una memoria rivolta al passato ma che guarda fortemente ancora al domani.
Auguri per i suoi novant’anni… Com’è stata la sua vita?
L’augurio non lo condivido perché è già così pesante portarsi avanti novant’anni, e portarsene molti di più non mi rallegra. Mi sembra di aver concluso come potevo quello che potevo. Intanto sono stato un padre di famiglia, poi ho sempre lavorato alla Rai, all’università, mi sono impegnato politicamente, dal punto di vista letterario ho scritto qualche libro non infame che è rimasto, e tuttora produco. Recentemente è uscito da Pananti di Firenze il libretto Un’intimità ormai impossibile, che raccoglie molte delle lettere che scrittori e artisti mi hanno mandato in questi anni e proprio in questi giorni sto licenziando un supplemento a questo libro con le lettere di altri nove-dieci grandi scrittori che si erano rivolti a me.
Se non avesse conosciuto Giuseppe Ungaretti come sarebbe stata la sua vita?
Credo che avrei ugualmente seguito le vicende letterarie e probabilmente avrei fatto il professore, sperando d’arrivare a insegnare nei licei o all’università e mi sarei occupato di altri grandi scrittori del secolo. Certo, senza l’affetto, la consuetudine, questa specie di figliolanza che ho sentito nei confronti di Ungaretti.
“La poesia si riafferma sempre, è la sua missione, l’integrità, l’autonomia, la dignità della persona umana”. Condivide quanto scrive Ungaretti?
Condivido perfettamente. Anche dopo le grandi crisi, le grandi vicissitudini negative per l’umanità, la poesia rinasce sempre e rinasce per quella forza di umanità che porta dietro e per quella forza di illusione che riesce a diffondere.
Dieci anni senza Mario Luzi. La sua era una poesia sintonizzata con il Divino.
È stata una grande perdita, anche se lui era in età ormai avanzata. È il poeta più importante italiano che abbiamo dopo Ungaretti, Montale e Saba. E poi, a parte la grandezza della sua poesia, che va dal primo libro bellissimo, quello giovanile, La barca, fino alle raccolte successive, con alcune poesie indimenticabili, come: Aprile, Amore, è forse è una delle più belle poesie del Novecento. E poi la scomparsa della sua figura. Era un uomo straordinariamente simpatico, buono, intelligente, molto arguto, molto fine e molto colto. Una perdita incolmabile, perché altri poeti furono importanti della sua generazione, come Sereni o come Gatto, ma non possono sostituirlo.
Di Carlo Emilio Gadda Lei ha detto che è lo scrittore italiano più amaro. Perché?
Forse perché è il migliore di tutti. E poi perché la sua personalità era estremamente importante, estrosa, spiritosa, polemica e quindi raggiungeva tante coscienze e tante intelligenze. D’altra parte, libri come il Pasticciaccio o come La condizione del dolore, sono capolavori che escono solo ogni secolo.
A Gadda però fecero credere che solo perché in una foto era a braccetto con Maria Luisa Spaziani avrebbe dovuto sposarla. Ma era proprio così ingenuo?
In parte era ingenuo, in parte stava abbastanza allo scherzo. Certo che Cattaneo, per esempio, che era anche lui molto amico, avevamo lavorato insieme a Gadda in Rai all’ufficio culturale, gli faceva credere, o per lo meno gli chiedeva delle cose impossibili, alle quali Gadda rispondeva seriamente. Per esempio: Sposeresti la Manzini? E lui: Se Falqui, che era il compagno, me lo chiedesse lo farei, ma lei starebbe fresca se aspettasse da me qualche prestazione. Così per la Spaziani nacque questa voce, quando ci fu un premio, che era stato candidato da Cecchi per darlo a Gadda dopo che Gadda era stato bocciato al premio Marzotto. La Spaziani riferendosi a una scrittrice del momento che si chiamava Pasolini Dall’Onda chiede malignamente a Gadda se gli piaceva la “Pasolini”, lui capì che volesse riferirsi a Pier Paolo Pasolini rispose un po’ scandalizzato. Il matrimonio tra lui e la Spaziani non si è mai parlato.
Perché Eugenio Montale un giorno pianse davanti a lei?
Io insegnavo a Milano, all’università, e quell’anno facevo il corso su Montale. Eugenio Montale viveva a Milano, in via Bigli, era abbastanza isolato, pochi lo andavano a trovare. Io qualche volta, dopo la lezione ci andavo e lo incontravo con il suo plaid sulle gambe, quasi sempre solo, con la fedele sua domestica. Una di queste sere in cui andai a trovarlo gli dissi che avevo fatto la lezione su una sua poesia: Spesso il male di vivere ho incontrato. Lui mi chiese se la conoscevo a memoria, io gli dissi di si, allora lui mi disse diciamola insieme e difatti la dicemmo insieme e lui piangeva.
Com’è la storia del “cappotto” di Vincenzo Cardarelli?
Aveva sempre freddo e del resto ai vecchi capita. A me che ora ho novant’anni a volte chiedo il plaid in camera, anche se mi dicono che è caldo. Ma io sento un freddo alle ossa e capisco Cardarelli che ad agosto andava in giro col cappotto, perché aveva questo freddo che si sente nella vecchiaia.
Quale ricordo ha di Carlo Bo?
È stato come un fratello per me, un fratello maggiore. Ho conosciuto la sua opera fin dalle prime, la famosa Letteratura come vita, e poi via via tutti i suoi libri. Avevo grande confidenza con lui. Quando andavo tutte le settimane a Milano per insegnare all’università, quasi sempre andavo a colazione a casa sua, ed ero molto amico di Marise Ferro che era la sua compagna. Bo aveva un’intelligenza e un memoria mostruose, difficilissime da incontrare in altri, e poi una grande cultura e spaziava dalla letteratura italiana a quella francese, a quella spagnola. È lui che per primo tradusse in italiano i versi di Garcìa Lorca, è lui che ha scritto saggi importanti a livello internazionale su scrittori francesi, è lui l’autore giovanile degli otto studi in cui azzecca le giovani personalità di allora che poi sono diventati i grandi maestri successivi.
Invece di Carlo Betocchi e Riccardo Bacchelli collaboratori del suo Approdo Letterario?
Grande simpatia per Bacchelli, uomo spiritoso di grande fascino, ma con Betocchi una consuetudine di venti- trent’anni , e difatti eravamo insieme redattori dell’Approdo radiofonico e poi dell’Approdo stampato. Nell’ultimo numero c’è una specie di poesia rievocativa del lavoro all’Approdo di Betocchi che è una magnifica poesia. Lui è un grande poeta, una raccolta come L’Estate di San Martino si pone tra le opere più grandi del Novecento.