“Bluedevil radio’s podcast: free download” di Serena Rossi # Racconto vincitore del Premio Patria Letteratura
“Bluedevil radio’s podcast: free download” di Serena Rossi è il racconto vincitore del Premio Patria Letteratura.
«Dai, magari ti porto con me. In un juke joint a bere. E questa è una lettera d’amore…»
Ore 20.00. Metro A. Prossima fermata: Repubblica, Teatro dell’Opera. Uscita lato destro. Roma.
Vorrei sapere perché ci sto andando.
[…] Puntini di sospensione.
È la prima volta che prendo la metro completamente da sola. Battistini – Anagnina. Poche fermate e sono a Piazza della Repubblica. Me l’ha scritto lui di vederci lì.
Non conosco nessuno. Maschere, volti ed espressioni nuove.
Sguardi. Stranieri, assonnati, distanti.
Anch’io sono lontana. Il sorriso leggermente sbiadito e le guance più scarne del solito. Il colore delle luci artificiali mi punge la vista. Sento gli occhi distratti delle persone addosso. In metro, tutti si scavano, ma fingono di essere altrove. O forse, non fingono. Forse, lo sono davvero. Altrove. Come me.
Un torpore ansiogeno mi impedisce di respirare regolarmente. I rumori della città non mi rapiscono. Ho la testa intasata di traffico. Osservo il biglietto integrato a tempo che ho tra le mani. Costa un misero e stupido euro la mia dose di adrenalina invernale. Me la posso permettere. Tanto si sa, che un viaggio da un euro, non può riservarti chissà quali stupefacenti sorprese.
Vorrei sapere perché ci sto andando.
Lontano da me, nel tentativo di riscoprirmi più vicina, dentro di te.
Vicina a un estraneo. Risposta errata: l’estranea sono io. Estranea al mio endoscheletro.
Ci pensa Junior Kimbrough a scandire le parole che non so pronunciare io. Me l’ha suggerito lui, il brano. Quello che ci appiccico fra un po’. Lui. L’estraneo che deve vendermi uno sprillo di elettricità.
Voglio un sogno dentro a un grido.
In volo pindarico sulle note distorte di un disco che pulsa linfa.
A ritmo cardiaco.
Meet me over in the city
And I see everything is so fine
We’ll get together now, darlin’…
Stiamo per incontrarci. In città. Correggo il titolo della canzone e do un nome alla mia ansia cancerogena: meet me in Rome.
Caro estraneo,
catturami ora, che è novembre. Ti aspetto. Con quieta ansia. Davanti al Teatro dell’Opera. Che non so ancora di preciso dove sia. Non fare tardi, o le mie articolazioni di latta si arrugginiranno.
Con vivace e sfacciata curiosità,
tua Giulia.
Ore 20.30. In macchina dell’estraneo. In mezzo al traffico frenetico di Roma. Dove le corsie, gli automobilisti, se le inventano di sana pianta. E ognuno va un po’ dove cavolo gli pare.
«Hai visto come sto combinato? So’ tutto chiuso oh! Febbre, raffreddore! Tesò, stasera t’attacco l’influenza senza manco pomicia’!»
Sorrido timidamente, anche se vorrei esplodere in una puerile risata.
«Ma come parli? Sei de Roma, eh?!» lo canzono.
Mi accarezza la guancia con tocco morbido e frenetico. Non lo conosco e già mi affonda i polpastrelli nella pelle. Chissà che onde sonore emette il mio corpo accanto al suo per infondergli tutta quella sicurezza.
«Ma che fai oh! Non son mica un gattuccio!»
«Gattuccio! Daje va’!»
L’estraneo mi fa ridere, perché guida in tutto quel caotico andirivieni di macchine, tram e persone, guardando me, invece che la strada. Mi denuda con quei suoi occhi chiari. E quasi m’inghiotte.
«C’hai le labbra piccole tu» mi punzecchia.
«Cosa stai farneticando?» e porto una mano alla bocca per nasconderla.
«Non ti imbarazzare bellezza, hai visto bene le mie? I miei antenati vivevano senza dubbio in Africa!» ridacchia.
E quando soffia la parola Africa, mi ricordo improvvisamente del motivo per cui sono lì. Con lui. Africa. Un continente di odori, sangue e suoni che ci fonde insieme, ci rende complici.
Sprovvista di se, ma e forse, sono arrivata a te. Esplorando sentieri inattesi, polverosi, bollenti. E Roma abbonda di crocicchi nascosti. O forse il crocicchio sei tu. E io ci sto inzuppando i piedi senza accorgermene, prima di farmi inchiodare. Dalle tue mani. Nella mia stessa carne. E poi dentro alla tua.
Chi sei? Il ragazzo che controlla il display del cellulare continuamente, facendomi indispettire, perché spogli me con lo sguardo, mentre il tuo cuore è altrove. Come la gente in metro.
«Se provi a farmi il solletico un’altra volta ti taglio le mani!»
«Ma guardala come ride, sembri una regazzetta!»
«Lasciami!» ma la mia risata mi tradisce e le sue mani, esperte, scivolano inarrestabili lungo i fianchi; il mio corpo con delicata tensione sgattaiola via.
L’estraneo è più furbo di quanto credessi. E la sua furbizia è spensierata e divertente.
Dischiudo gli occhi. Insufflo il suo nome: Danilo.
Blu come un blues di Willie King.
Con sfumature nere, come le acque profonde del Mississippi di notte.
«Ragazza, io tengo anima e corpo blues.»
«Sì, ma ricordi che giorno è oggi?»
«No!»
«È il nostro matrimonio!»
«Ah, mia amata! Ma ti ho già comprato once di viole e primule!» folleggia scanzonato.
Ore 00.30. Nel mio letto. Mi rigiro pensando ai diavoli blu. Un’altra notte insonne e sudata che evapora via silenziosa nel fragore della città sempre vigile. E la sensazione costante che sto per perdermi in una dimenticata zona rurale del deep south.
Mi piace. L’estraneo che ha il fulgore delle hills americane. Bianco, col sangue nero.
Presto torno, ho deciso. A comprare un altro biglietto integrato a tempo, per assaporare ancora un po’ di quella fragranza ferina di cui sei cosparso. Aspettami.
«Ci sono persone che hanno piccoli sogni e persone che ne hanno di grandi. Quelle che hanno grandi sogni non trovano mai pace. Si svegliano nel cuore della notte e loro sono sempre lì. In agguato. Io appartengo alla seconda categoria.»
«Quanto sei bella! Non scherzo, sai? Questa tua sincerità mi piace un sacco.»
Ore 21.30. Trastevere. Roma.
«Guarda che se te pijo, non sai che te faccio!» gioca Danilo malizioso.
E mentre divoriamo due pizze, seduti in una locanda dai colori pastello, ci raccontiamo.
Danilo ha un’innata capacità di farsi svelare anche ciò che solitamente è intimo. Non arrossisco alle sue provocazioni ma abbasso lo sguardo, mentre con le mani sfiora la punta delle mie dita.
È uno che viaggia. Con i piedi, le gambe, i muscoli, i tendini. Con l’anima, il miocardio e la giugulare. Ascolta e risoffia nell’etere storie che giungono da terre lontane, perché non muoiano, ma possano arrivare ad altri e vivere per sempre.
Sospese.
Lì, dove a volte basterebbe alzare il palmo di una mano per afferrarle, per sentire cosa hanno da insegnare.
Lì, nell’arcobaleno che muore alla fine delle nostre giornate tristi.
Lì, quelle storie riprendono vita. In noi, attecchiscono.
Danilo mi piace perché è un uomo libero dalla voce calda e ipnotica che penetra nei neurotrasmettitori. Il suo sangue è più denso del mio, eppure mi sento leggera quando sono con lui. Lui che mentre parlo spezzetta il tappo della bottiglia e me lo lancia addosso.
«Ma che fai?»
«Lo sai che ho una foto tua qua nel cellulare?»
«Ancora con ‘ste foto? Non la voglio vedere, mi vergogno, tanto non vengo mai bene.»
«Ma stai bene così, che te manca? Ah, no… me sa che ce l’ho sul desktop del pc a casa.»
«E che ce la tieni a fare sul desktop?»
Sorridiamo come due ragazzini.
«Fa caldo qui dentro, che ne dici se usciamo un po’?»
«Sì, una passeggiata mi va.»
Mi alzo per andare a pagare, ma lui mi ha già preceduta ed esclama a gran voce, sull’uscio della porta, il nome di quello che credo sia un ristorante romano, per poi aggiungere: «L’avete sentita? Ha detto che me la paga lei una cena de pesce la prossima volta! Se vede che è straniera qua a Roma, lì te spennano tesò!»
Ore 23.00. Il Tevere scorre silenziosamente sotto di noi. Mi viene in mente Tevere Delta Blues. È una traccia che adoro, scritta da un musicista che risponde al progetto di The Blues Against Youth.
«Ma guarda che l’omini non se ne fanno niente delle donne che quando l’abbracci so’ tutte ossa! Senti, te posso tocca’ ché sei tutta morbida?» domanda festosamente, pizzicandomi le maniglie dell’amore.
«Danilo! Sei impazzito?» rispondo imbarazzata ma divertita. «Te sei fuori!» Mi prende per mano attraversando la strada, io gliela stringo e sto al gioco.
«Tesò, ridammela ‘sta mano però!» e la sfila via con aria di sfida.
«Stronzo!»
«Daje! Mòvite!» grida in mezzo alla strada; il suo corpo mi avvolge per spostarmi più in fretta. «Qua sei a Roma, bella! Quelli che vedi in macchina aspettano solo il momento giusto pe’ pijatte sotto!»
Scoppio a ridere. Di nuovo. Quante volte avrò riso da quando lo conosco? Mi sento bene e il traffico nella mia testa si è dileguato. Questo ragazzo è una festa di colori. Ma quando ci avviciniamo, alzo il braccio troppo in fretta e il mio gomito finisce nel suo occhio.
«Scusami!!!» grido abbracciandolo e accarezzandogli la testa. «Quanto ti ho fatto male? Dai, scusa! Sono un disastro!» Lui si rannicchia su se stesso e puntualizza teneramente: «Che botta, oh! E io che volevo solo un bacio!»
Credo che andrò a comprare il terzo biglietto integrato a tempo, perché questo bacio, nel prossimo viaggio, lo voglio. Un bacio da un euro.
Ore 00.06. Abbracciati in macchina di Danilo per salutarci. Il suo giubbetto e il mio cappotto ci isolano e la temperatura rimane tiepida.
I Mad Season suonano November Hotel nel suo stereo. Lui adora quel pezzo strumentale e me lo fa ascoltare, ricordando tutti i componenti del gruppo. Eppure, nei miei pensieri si insinuano le parole di una canzone di Zibba & Almalibre: «E il mio dicembre meno freddo aveva il volto di una stella.»
È strano. Danilo stona in quel verso. Lui che è più vicino alla terra che al cielo. Ancorato alle radici. Non è una stella, è un diavolo blu. Libero e indomabile. E non so perché, lo voglio.
Sotto alla mia pelle e dentro alla mia carne.
«E poi niente, so’ contento de vedette e de sta co’ te stasera!»
«Bravo! Hai detto la cosa giusta una volta tanto!»
«Attenta! So’ come Dottor Jekyll e Mr Hyde. Vedi? Stavolta se te tocco la mano, non te ritrai. Buon segno!»
«Sei un paraculo!»
«Io non ho fatto niente, guarda che sei te che…»
«Sì, ora è colpa mia, ma dai…»
Ore 21.45. Quartiere San Lorenzo. Roma. In una trattoria di cui non ricordo mai il nome, ma dove sono sempre tutti molto ospitali e simpatici con me. Amici di Danilo. Lui riesce a farsi voler bene da tutti. Dimostra la metà degli anni che ha. Porta avanti una quantità notevole di attività. Lotta per le cose in cui crede. Questo suo ottimismo mi contagia un po’.
Caro Danilo,
ho imparato il tuo nome, tu invece il mio non lo pronunci mai. Te lo ricordi almeno, mentre giochi con i miei capelli? Mentre fai promesse che puntualmente infrangi?
È gennaio e voglio il mio sogno. Portami con te, solo per stanotte, a correre lungo una delle tue amate highways. Fammi sentire com’è. Noi respiriamo ora, in questo istante. Domani, temo che saremo già in decomposizione.
Ti mordo,
tua Giulia.
Ore 22.15. In macchina. Intrappolati.
Sento penetrarmi sotto le unghie l’odore pungente del nostro sudore. Violento fuoriesce dai pori dilatati. Ho la vista annebbiata. I finestrini sono appannati.
Avverto il vociare di qualche passante ignaro, ma la sua lingua rimane avvinghiata alla mia e le sue mani mi strappano i capelli. Sfioriamo le nostre intimità che si desiderano prepotentemente. Disteso sopra di me. Sospesi. Come le storie che racconta.
«Accarezzami, ancora. Voglio un bacio. Qui, in fronte. E poi scendi, sul naso. E poi qui, sulla bocca» e mi stringe, ma non si accorge che la mia mente vaga lontana. Da me. Da lui. Accoccolata tra le sue braccia, mi scopro diversa. Più vera. Più terrena. I pensieri orgasmici lo rendono prigioniero. Fingo di respingerlo.
«Sei un animale.»
«Ah, sì?! Devo tornare a casa. Dimmelo tu di andare.»
«No, resta qui con me» sussurro sottovoce, assaporando il suo respiro affannato. Continuo a giocare con la sua bocca, mordendogli il labbro inferiore, ma voglio andare a casa anch’io, non voglio che accada qui. Con i corpi incatenati e il cuore estraneo.
Scendo dalla macchina e scappo sotto il suo sguardo incredulo. Scappo dalla me che non pensavo di essere. E da lui che non sa chi sono.
Goin’ Down South, intonerebbe R.L. Burnside.
Torno. Non ti stancare di aspettarmi. Ti prego.
Ore 21.00. Metro A. Prossima fermata: Termini. Uscita lato destro. Scale mobili. Metro B. Direzione: Rebibbia. Roma.
Il biglietto per una dose di adrenalina costa più di un solo misero euro. Lo scopro quando Danilo mi aspetta all’uscita della metro, con la barba incolta che gli nasconde il volto. Lo crocifiggo con la mia bocca. Burro. E lui sussurra che ha conosciuto un’altra e non sa che fare.
«Parlami, guardami oh!» mi scuote. «Pensi che mi faccia star bene dirtelo? Sono confuso.»
«Non ce la faccio» alzo il volume dello stereo su un’incazzata Corduroy dei Pearl Jam.
Sta mentendo. Devo averlo spaventato per averlo bramato troppo.
Mi lascia andare, impacciato, eppure le sue mani ancora mi trattengono. Voglio scendere da questa maledetta macchina, ma continuo ad accarezzargli i capelli per farlo morire un po’. La sua mano s’insinua nella mia coscia e, infine, si ritrae.
Resistersi. Per quanto ancora?
Io ho solo un euro, ma Danilo è un diavolo blu. E i diavoli blu non si possono comprare.
Ore sospese. Marzo.
Il suo corpo non è più pinzato ai miei capillari, ma le sue storie sopravvivono. Non mi sento triste, ma quando mi ferisco accidentalmente con un coltello, mi accorgo che il mio sangue non è rosso.
Il mio sangue è blu. Con qualche sfumatura nera.
Ed è denso.
Blu. M’inghiotte.
E mi ricorda di aver desiderato di essere il pasto di un diavolo.
Selvaggio e indomabile, ma libero.
Libero perfino dalla mia carne.
Sono io l’estranea. Schiava della sua.
Vorrei sapere perché ci sono andata.
Quella sera.
A quel crocicchio.
Nei polmoni di Roma.
«Gente, anche per oggi la diretta è terminata! Grazie a Giulia per averci portato in viaggio con lei! Continuate a raccontarci le vostre storie! Vi aspettiamo domenica prossima su Radio BlueDevil, ore 22.30! In voce, come sempre, il vostro Danilo! Ci ribecchiamo on the road… noi ci siamo, e voi? Notte gente!»
«Ciao Danilo, come stai?»
«In lotta. Non sapevo se avevi voglia di sentirmi oppure no…»
«Magari quando torno possiamo rivederci per fare due chiacchiere tranquille…»
«Magari due chiacchiere sì… e dai… e famosele…»
«Ok, allora se scendo ti chiamo…»
«Dai, vedemose…»
«E basta con ‘sti puntini di sospensione!»
«So’ belli i puntini di sospensione…»
Accendo distrattamente lo stereo e scopro, incredula, che Eddie Vedder mi sta regalando un biglietto integrato a tempo da un euro. Un altro.
Brucio, sospesa tra le sue storie e le mie. Di nuovo.
Che faccio? Lo timbro?
Oh, she don’t want him,
she don’t feed him… after he’s flown away.
Oh, into the sun…
ah, into the sun…
Burn… burn…
[…] Puntini di sospensione.