“Babelfish” di Gino Pitaro
Recensione di “Babelfish” di Gino Pitaro (Edzioni Ensemble, 2013), fresco vincitore della III Edizione del Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata.
I racconti contenuti in Babelfish hanno la capacità di portare il lettore in giro per il mondo, seguendo le vicende dei vari personaggi.
Ci si può trovare a correre a perdifiato con i ragazzi rincorsi dai tori nel giorno di S. Firmino e provare le stesse emozioni di Rino, con la paura a far la regina. Ci si può trovare a Ginevra con Michelangelo e i suoi amici, a condividere l’alloggio e le feste notturne, a condividere la vita di quattro giovani andati in Svizzera per riuscire a costruirsi un fututro migliore di quello prospettato in patria. Oppure ci troviamo a condividere i momenti di solitudine cercata di Chris, a Roma, una città dove difficilmente ci si può sentire soli, ma che nasconde angoli dove è possibile fare incontri alquanto strani, come Holly avrà modo di farci scoprire. Ancora possiamo trovarci a Londra, con Claudio, ad indagare sulla scomparsa di una signora anziana, di cui ci si è accorti solo nel momento della sua mancanza. Una presenza abitudinaria, considerata di poco conto, invece rivelatasi molto importante non solo per lui. E perchè no, viaggiare fino a Singapore con Ivan, alla scoperta di un mondo che neanche lui, abituato ai viaggi per lavoro, era mai riuscito a conoscere così a fondo. Per ultimo la Costa Azzurra e Francesco che capisce, in questo angolo di mondo, il prezzo pagato al successo.
Per tutti il viaggio, come metafora della vita stessa, partire da una esistenza conosciuta ed affrontare un futuro incerto da scoprire giorno per giorno, in luoghi lontani da casa e dagli affetti.
I personaggi si costruiscono un destino, che sperano benevolo, con le scelte che sono chiamati a fare momento dopo momento. Queste scelte però possono essere deviate o addirittura cancellate dalle scelte fatte da altri, cambiando definitivamente prospettiva alle loro vite.
Gino Pitaro ci porta a conoscenza delle esistenze di questi personaggi collocandoli in ambienti descritti molto bene, dando l’impressione di conoscerli a fondo, e caratterizza i vari personaggi in maniera che il lettore possa ritrovare in loro qualcosa di familiare, di conosciuto, come un amico che ha deciso che la vita qui, in Italia, gli sta stretta e ha deciso di trovarne un’altra e parte alla sua ricerca e noi rimaniamo, un po’ tristi.
Gino Pitaro è una piacevole scoperta. Non avevo letto il suo precedente romanzo, né conosco personalmente l’autore, anche se due anni fa fui bombardata da recensioni entusiasmanti su “I giorni dei giovani leoni”, le quali però mi avevano lasciata tiepida. Questo Babelfish l’ho incrociato quasi per caso, allora mi son detta che non avrei posticipato la conoscenza letteraria dell’autore.
Pitaro sembra essere un narratore puro, non si lascia trasportare dallo slogan, dal manifesto programmatico, dall’idea di fornire tesi chiuse al lettore o una pluralità di tesi, che qualche volta è persino peggio. I pensieri extradiegetici trovano una dimensione accettabile, l’autore suggerisce percorsi e alternative, pur rimanendo rigoroso in una narrazione scorrevole ma ricca di personalità e sensibilità, anche troppa. Pitaro non spiega, narra! E così finisce per spiegare, anzi suggerire. Cosa che molti scrittori di narrativa dimenticano, facendo didascalie delle proprie idee e opinioni, dei propri sentimenti e delle proprie emozioni, creando di continuo un “effetto telefonato” tra efficacia della narrazione e suo significato educativo, sociale, politico.
La onniscienza e le riflessioni extradiegetiche trovano in Pitaro un rapporto equilibrato e non vanno a scapito della diegesi. Una dote rara, che riesce solo alle penne di talento.
Altro aspetto spiccato: Pitaro è un autore al di sopra del pessimismo e del facile ottimismo, di nostalgie e facili entusiasmi. Dimostra di non voler accattivare il lettore con temi-spot, ma di intrattenerlo in piacevoli e intriganti percorsi.
I suoi personaggi ricevono dalla vita parecchio e quasi altrettanto cedono, conquistano mete e si trovano a fare rinunce o a vivere negazioni, rifuggendo dalla superficialità quanto dalla pesantezza. L’inconsueto poi è sempre alla porta e trova forme e trame sorprendenti. Davvero interessante.
E’ difficile commentare un libro di racconti, ciascuno di essi è un microcosmo, un frammento di vita, una storia a sé, e uno sguardo panoramico rischia di essere superficiale e riduttivo. Ci tengo però a riportare qualche sensazione trasversale che è rimasta a fluttuare in me dopo la lettura.
In tutte e sei le storie narrate i personaggi oltrepassano – o tentano di oltrepassare – dei confini, non solo geografici ma soprattutto interiori. L’autore è bravo a dipingere, in tono intimistico e confidenziale, piccoli affreschi di “nomadismo esistenziale”, un nomadismo dell’anima.
Sfide, amore, necessità, sogno, mistero, ambizione, si intrecciano nei segmenti di vita dei personaggi che si muovono su un pianeta sempre più globalizzato, ma ancora prigioniero nel perimetro delle singole individualità, come pesci di Babele perfettamente (dis)-orientati.
Il mio racconto preferito è Holly, dove in un’atmosfera magica e surreale si propagano le vibrazioni di una tragedia che la vita non è bastata a contenere, i cui echi si irradiano dall’oltre-vita fino a entrare nella percezione attonita di Chris, nella suo casuale incontro con Holly, amabile fantasma bambina.
Il linguaggio è maturo e spigliato e lo sguardo dell’autore – che ho il piacere di conoscere – si mantiene lieve, privo di stupore o di biasimo, talvolta ironico, talvolta divertito, e con un pizzico di compassione verso la quotidiana fatica di vivere nell’incomprensibile “acquario” del mondo.
Il viaggio è il protagonista di questa raccolta di racconti. Il viaggio come scoperta di sé e dell’altro, il viaggi come rivelazione.
Ed è sempre un viaggio che intraprende anche il lettore, partendo da Pamplona, soffermandosi a Ginevra, Roma, Londra, Singapore, fino ad approdare sulle spiagge solitarie di Saint Tropez.
I protagonisti appaiono da un lato forieri della propria identità culturale, dell’altro aperti all’incontro con l’altro che a tratti appare lontano, eppure alla fine riesce sempre a toccare il cuore. Come la dolce Miss France, anziana signora che diventa quasi un simbolo della fusione di culture. O la bella Sakura, che rapisce il cuore di Ivan in una Singapore descritta come “un luogo dove tutto fluisce e niente si trattiene”.
All’inizio di ogni racconto il lettore viene tuffato nell’atmosfera evocata da ogni luogo, per poi iniziare a nuotarci osservando le vite che lo popolano. Con uno stile semplice, Pitaro sviluppa l’idea di una continua scoperta del mondo resa possibile grazie alla comprensione del diverso.
Un filo quasi invisibile lega i racconti. E gli stessi protagonisti appaiono sempre un po’ imbarazzati nella loro curiosità, attenti e pronti al cambiamento interiore.
Libro fresco, dolce e “leggero” nel senso migliore del termine, con personaggi che, nei luoghi più disparati, scelgono di fermarsi e “vedere” la vita che scorre e contamina luoghi e culture, lo faccia attraverso il “robivecchi” di un’amabile vecchietta, una bambina (con sorpresa) che gioca in un cimitero, o un’ammiccante orientale nel melting-pot di Singapore.
Un libro “moderno” (tanti luoghi visti con gli occhi di chi ha casa ovunque) e “amoderno” (calma e capacità di fermarsi ad osservare contro la frenesia ed il conseguente “oblio visivo” odierni) allo stesso tempo.
Sorprendente, leggero e frizzante.
Questo è un libro fantastico! Ma non fantastico perché narra delle avventure, ma fantastico perché ti prende e ti trasporta in un’altra dimensione dove le emozioni e le sensazioni dei personaggi prendono vita con le parole. E’ come se un giorno ci svegliassimo da un episodio brutto, aprissimo gli occhi e la nostra soluzione al problema fosse stata lì davanti ai nostri occhi tutto il tempo. Solo che, il più delle volte non riusciamo a esprimerci per spiegare le nostre emozioni e le nostre sensazioni del tutto. Durante la nostra giornata siamo coinvolti in un mare di lavoro e cose da fare che, alla sera non riusciamo a spiegare quello che abbiamo provato dentro di noi realmente. “Babelfish” ci dà la sensazione di averlo scritto noi in prima persona.
Sei deliziosi racconti, spaccati di vita dall’ambientazione “babelica”, cosmopolita, che trattano di relazioni d’affetto, d’amore e d’amicizia. La vita dei protagonisti come viaggio nella loro interiorità e solitudine, nell’eterna tensione della ricerca d’amore…
Ho particolarmente apprezzato il racconto “Miss France”, che ruota attorno al personaggio di una misteriosa e anziana signora che a Londra, nel cuore pulsante della City, gestisce un negozietto di oggetti e souvenir “vintage”… cose ritenute inutili e che nessuno userà più, eppure, “Guardando quegli oggetti Claudio si sentì il cuore preso da una stretta di infinita tenerezza”. Il terzo racconto, anche molto toccante, e ambientato a Roma nel cimitero del Verano, ci rende invece partecipi di una tenera e struggente amicizia fra un uomo solitario e meditabondo, che ama passeggiare per il cimitero intessendo un dialogo silenzioso con i defunti, e il fantasma di una bimba, Holly, la quale, in base a certe affinità elettive, sceglie le persone a cui mostrarsi.
La scrittura di Gino Pitaro mi ha riportato, per sensazioni evocate, ambienti e riflessioni sull’esistenza, a Zweig e a Thomas Mann, soprattutto nel racconto conclusivo: “Il dazio”, nel quale l’autore sembra quasi tratteggiare se stesso, svelandosi in un “viaggio introspettivo” reso con una sensibilità finissima.
Consiglio vivamente la lettura di Babelfish, questo libro è stato per me una vera rivelazione!
Poche parole per descrivere lo stupore provato nel leggere Babelfish.
E’ un libro che ti coinvolge, che si legge tutto “d’un fiato”, che ti trascina in un vortice di emozioni, per mezzo del quale il sentimento, le vicende, le figure dei protagonisti si insinuano nella tua psiche.
E’ la semplicità nella narrazione che ti cattura, è il linguaggio scorrevole, diretto, che ti fa “vivere” accanto ai personaggi e quasi ti conduce in un…mondo parallelo.
Una scrittura equilibrata, ritratti e caratterizzazioni concrete, aspetti quotidiani o fuori dal comune, punti di vista parziali o totali in sei racconti che descrivono luoghi, eventi, persone molto diversi tra loro, eppure legati da una semplice constatazione di fatto: abitiamo tutti sulla stessa terra. Chi si aspetta giochi di incastro e colpi di scena rimarrà deluso, ma chi cerca un buon libro da leggere, una narrazione colta, un esempio di “bello scrivere” e una lettura che permane anche dopo averla conclusa troverà in Babelfish l’aurea mediocritas.
Gran bel libro – interessante, intimista, ironico – . Ne consiglio vivamente la lettura.
Con uno stile misurato ed elegante Gino affronta il nocciolo della questione: la vita come fenomeno in continua trasformazione. Sei racconti che ci propongono sei esperienze, diverse e uguali tra loro. E non è poi tanto l’insegnamento, la cosidetta “morale” quello che conta, ma l’esperienza in sè, destinata a finire e a lasciare inevitabilmente una traccia, un sentimento o un ricordo che sia.
I vari luoghi e i personaggi della narrazione sono gli elementi di un grande calderone che ci ricordano null’altro l’essenza ibrida del vivere.
Da assaporare!