“Argéman” di Fabio Pusterla
Recensione di “Argéman” (Marcos y Marcos) di Fabio Pusterla.
Uno dei temi di questa ultima uscita di Fabio Pusterla, Argéman, è l’identità: umana, ma anche esistenziale, politica, professionale, di un autore che guarda nello specchio della finestra per inquadrare contemporaneamente gli altri e sé, in un gioco di rimandi su cui si innesta il nervo sensibile di questa indagine condotta per i luoghi (o non-luoghi) del quotidiano, fra l’ambiguità sottile della ripetizione, dell’assuefazione, e il dilatamento percettivo della condizione universa. Nelle pagine di Argéman, Pusterla ci accompagna Lungo il cammino (così il titolo di una sezione in prosa) di una sua infinita e paradossale giornata-tipo, davanti la curiosa interrogazione del doganiere, nelle aule di scuola, attraverso i ricordi di una vita afferrati come scatti fotografici o scritte sul muro, dove i versi sono “cose strane che incontro sul cammino, / affioramenti di voce che non so / quasi mai dove portino”. Né alla definizione dell’io e della comunità fa difetto l’illuminazione e contrario, propiziata dal caso, o dallo scambio:
[…] Ma in questi giorni uno, con gli occhi tristi,
inatteso mi ha chiesto
se io ero lo scrittore Giuseppe Pontiggia,
quello che ha scritto Nati due volte.
“No”, ho dovuto rispondere, sorpreso
“e poi è morto da qualche anno, mi dispiace;
però l’ho conosciuto, ed era bravo e gentile. L’avevo
una volta persino invitato a Bellinzona e lo ricordo,
come scendeva dal treno con un cappotto grigio
o cammello e salutava con calma”. […]
(da Posto di frontiera, p. 16)
I toni su cui si prova Pusterla sono molteplici ma sorprendenti per la sprezzatura con cui si accostano rimandi letterari più o meno scoperti e preziosi (a fianco ad alcune presenze guida denunciate fortemente, come Sereni, si ha il sospetto di altre più oblique) a referenti popolari, dialettali (cfr p. 64) o bassi, fino alle più elaborate modulazioni retoriche cui si affida l’approssimazione a una cronaca indegna, l’alluvione delle Cinque Terre, i disastri ecologici planetari, la “terra dei fuochi”… Siamo dunque in presenza di una raccolta ad alta densità, un volo sulle ali dell’animale emblema del libro, la Libellula delle ultime pagine, che compare anche sulla prima di copertina; il viaggio è reso più gradevole dall’ironia dell’autore, quasi sempre impassibile, scosso solo davanti i più brutali guasti della Storia. La raccolta si compone di quattro sezioni (Opposizioni, sovrapposizioni, Argéman, Lungo il cammino, Il volo della libellula) di lunghezza variabile, più un Congedo in cui ad una nuova nominazione delle cose è affidata la salvezza dalla o nella storia:
Libellula gentile
vola
fatti veloce
lieve traversa i nembi
di chi più si dispera
e non ha voce,
portati svelta in vista,
azzurra chiama gli occhi
e gli stupori.
Giù nelle vite perse
nei solchi profondissimi di nero
tessi la tua conocchia luminosa,
deponi lo smeraldo di un’ipotesi,
di un’ala
Dopo, tocca ogni cosa
sillaba bene il suo nome
e falla vera
(p. 213)
Dalla quarta di copertina: «Argéman: sono lingue di neve perenni annidate in certi anfratti di montagna. / Iris argeman è un fiore purpureo del deserto. / Nahal Argeman è un villaggio in Palestina, che dalle alture guarda il Giordano. Intorno, terra bruciata, muri che chiudono territori feriti. / Sono richiami lontanissimi, neve alpina e sabbia orientale, passaggi stringenti. / Piccole porte dove si affacciano volti e paure, domande che lacerano». Argéman è dunque un simbolo doppio o triplo, una parola etimologicamente misteriosa che porta da un capo all’altro del mondo complice una semplice assonanza fonica, scovata dalla roulette della modernità, il “motore di ricerca” che crea analogie di pensiero meccaniche, fatali, suggestive. Sono questi gli elementi di cui Pusterla si serve per scegliere il titolo della raccolta, alludendo a come un puro suono significante possa, seguendo radici e storie diverse, arrivare a designare una cosa e il suo contrario; laddove lo statuto di contrarietà viene messo in crisi dall’accostamento poetico. Una certa radicalità di base (le nevi perenni, il deserto) conferisce la chiave estetica per cui tutto, sembra, può infine avere una ragione.
“Come posso risponderti? Il nero
non è nelle parole che pronunci, ma nei toni,
nei modi con cui cali
la tua scala reale sillogistica
che scatena gli applausi. Potrei dirti
che il mio silenzio oggi fa il rumore della neve
quando cade sui prati
in alpe senza vento, o se la incide
la zampa di una lepre mentre fugge, il geroglifico
lieve della pernice. Che una coltre
di neve e di silenzio può proteggere
i semi che germogliano nel buio, le lunghe grotte
del tempo e dei ricordi. C’è qualcuno
che sa queste cose e capisce; non tu,
che a grandi gesti spieghi indichi al mondo
qual è il vero problema. Mi dispiace,
non ti risponderò”.
(Verticalità, crolli, collegio dei docenti II, p. 21)
Ed è fatalmente sulla storia della lingua che si innesta il gioco del senso, come nella poesia Fili de le pute (p. 44) in cui è di nuovo un “refuso da computer” a provocare il clic nella mente del poeta: le parole che testimoniano la nascita dell’italiano, conservate nella basilica di San Clemente a Roma, sono ormai quasi cancellate dai millenni, ma continuano a vivere nelle dispense scolastiche di cui il prof. Pusterla si serve nelle sue lezioni, ed è così che la correzione automatica del programma di scrittura può trasformare il nome di uno dei protagonisti di quella iscrizione, Albertello, nel quasi analogo Alberello, provocando le domande degli allievi, ed innestando la lunga metafora vegetale che chiude l’epifania. I piccoli detriti della storia conservati nella lingua, la fatalità dell’automazione del pensiero collettivo, la tradizione delle idee, sono queste alcune delle suggestioni che stimolano la fantasia di Pusterla, appassionato e privilegiato spettatore degli eventi:
Storia della lingua
A Chiasso, in un cortile
qualunque dentro gli ultimi
anni ’50 bimbi
giocano arrampicandosi
sui tralicci per battere i tappeti
nel fiato d’erba e ferro.
Eterno il pomeriggio, inarrestabili
i cirri lungo il cielo a pecorelle,
inarrestabili i giochi.
Salgono su si appendono
a gancio coi ginocchi sulle sbarre
la testa in giù le braccia a penzoloni
e con le loro garrule
vocine urlano al mondo
siamo scimmie
belle bertucce brune oranghi tanghi,
siamo sciemmiette che fanno la petàce
e ridono nel tardo dopoguerra.
“Petacci” li corregge
altissima una mamma non immemore.
“Giocate pure allegri non fatevi male,
però si dice fare la Petacci: e ricordatevi
che lei non era sola
a dondolare”.
(p. 46)
Argéman è un libro che contiene diverse sorprese, passaggi coinvolgenti che seducono il lettore portandolo nel campo di una poesia radicata sul dialogo con la tradizione, e tuttavia riconoscibile anche ai non “dottori in lettere”. Un dettato che riconquista alla poesie alcune zone retoriche e neo-retoriche che sembravano esserle precluse, nell’estrema fiducia di raggiungere una vastità d’argomento di cui, è qui il messaggio più coerente, bisogna provare a riappropriarsi. Quello che in definitiva Pusterla cerca di rifondare è il senso di una poesia civile (se non di una civiltà della poesia) che possa riallinearsi alla storia, aderire al territorio, essere contigua alla geografia umana, e per fare questo segue molte strade diverse, dai modi pseudo-burocratici del verbale (cfr. Verbale delle cose non dette, p. 183) all’intonazione elegiaca; ma in tutti i suoi tentativi, la consolazione letteraria (che qui si fa anche speranza) accompagna il passo dell’uomo in vista del disastro: “[…] I vivi hanno sul palmo / la cenere dei morti, / sulle rovine antiche / ulivi, tronchi storti. // Passava a Pignataro / lesto Francesco Flora./ Non aveva firmato. / Non firmerebbe ancora” (da Terra di lavoro I, p. 188-9).