Appunti per un’analisi linguistica e stilistica di Canzoniere XXXV
Appunti per un’analisi linguistica e stilistica di Canzoniere XXXV.
Petrarca, Canzoniere XXXV
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sí ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Il noto sonetto Canzoniere XXXV è un componimento a cinque rime che presenta uno schema metrico dei più frequenti nel Canzoniere, cioè ABBA ABBA, quindi a rime incrociate, nelle quartine, e CDE CDE, a rime replicate, nelle terzine, anch’esso molto presente nel libro. Dodici delle quattordici parole rima, fra cui si notano quella derivativa fra campi e scampi (vv. 1 e 5) e l’altra paronomastica fra stampi e scampi (vv. 4 e 5), si spartiscono in sei casi la tonica in à, in altri sei la tonica in é, confermando una ditonia che Lonardi ha rintracciato nei primi 50 sonetti della raccolta petrarchesca.
Gruppi fonici fondamentali, grazie all’associarsi delle nasali n e m, sono AM da un lato, EM/EN dall’altro, che oltre ad affacciarsi nelle rime, si riverberano anche in posizione interna, come mostra già la prima quartina. Si confermi poi, a confermare questa struttura binaria, l’aggiunta, ai suddetti gruppi fonici, dell’occlusiva labiale sorda p, sia nelle quartine che nelle terzine, e dell’occlusiva dentale sorda t solo nelle quartine, da cui da un lato AMP/ EMP, dall’altro ENT. Il primo gruppo, in particolare, sarebbe responsabile, secondo Mengaldo, di un regolare inceppamento della catena fonica, riflesso per così dire semantico del tema enunciato al v. 2, quel lento incedere per solitarie vie, espresso a livello sintagmatico dalla presenza di coppie aggettivali, da quella già in limine, rinsaldata dall’assonanza e dalla iterazione della sillaba so (SOlo et penSOSO), a quella, correlata a chiasmo, che conclude il primo distico (tardi et lenti), all’ultima del v. 12, dislocata in epifrasi e invertita, come vedremo, rispetto all’ordine di Dante, Inferno I, 5 (“esta selva selvaggia e aspra…”). Per non citare l’ultimo verso che, mentre replica in chiusura quel principio sia nella forma (omeottoto) che semanticamente (il reciproco ragionare dell’io e di Amore), ribalta anche – seppur in apparenza – la solitudine dichiarata dall’aggettivo di apertura. Nella stessa direzione del rallentamento, poi, vanno, nota ancora Mengaldo, forme perifrastiche quali “vo mesurando” (v. 2), “venga … ragionando” (vv. 13-4), “d’allegrezza spenti” (v. 7), “gli occhi porto” (v. 3), l’inserimento con iperbato di “per fuggire” (v. 3), nonché il lungo periodo dei vv. 5-11.
Ma a confermare la binarietà è anche, scrive Hugo Friedrich, il respiro sintattico scandito, nelle quartine, secondo la misura del distico, laddove si espande a tutta la stanza nelle terzine, formando, con le due ultime strofe, una coppia di elementi distinti, ma omologhi, come già la metrica ci suggeriva. Si noti, inoltre, che il componimento è poi diviso, dal “Ma” divaricatore del v. 12, in due parti asimmetriche.
Per tornare ai gruppi fonetici dominanti, Petrarca li ricaverebbe, secondo Lonardi, da una fonte latina, sempre citata dai commentatori, a partire da Vellutello. Si tratta dell’episodio omerico di Bellerofonte, letto dal poeta in traduzione latina nelle Tuscolane, di Cicerone, III, 26, 23:
qui miser in cAMpis merens errabat aliENis
ipse suum cor edENs, hominum vestigia vitANs
in cui la struttura a chiasmo formata da campis–vitans da un lato, alienis–edens dall’altro, sarebbe replicata con uguale figura, seppure invertita, in pensoso–lenti e campi–mesurando del sonetto petrarchesco:
Solo et pENsoso i piú deserti cAMpi
vo mesurANdo a passi tardi et lENti (1)
Ma veniamo al commento testuale e all’individuazione delle possibili fonti.
deserti (v. 1): è aggettivo molto usato da Dante nei primi due canti della Commedia: “piaggia diserta” (Inf., I, 29) (piagge è al v. 9 del sonetto) e I, 64: “gran diserto”; “diserta piaggia” torna in Inf., 2, 62.
campi (v. 1): in rima con scampo e m’avampo è al son. 221. Bettarini cita i deserta loca di un’elegia di Properzio, ma la parola si riattacca meglio ai campis del passo bellerofonteo delle Tuscolane, peraltro anch’esso citato.
mesurando (v. 2): Santagata cita, per la metafora, Lucano e avalla la lettura di Keller per cui Saturno, divinità sotto il cui influsso sarebbero i malinconici, presiede alla misurazione dei campi (donde il compasso, la bilancia e altro materiale nella Melancolia I di Dürer).
a passi tardi et lenti (v. 2): più che i riferimenti citati da Santagata, vedrei meglio, per l’uso della stessa preposizione, Dante, Inf., 6, 101: “a passi lenti”. Per il binomio lento e tardo entrambi i commenti citano Petrarca, Triumphus Pudicitiae, v. 40.
occhi intenti (3): si cfr. Dante, Inf., 8, 66: “perch’io avante l’occhio intento sbarro”.
vestigio (4): inteso come orma anche in Secretum, I, 3, 2: “paucissimorum signatum vestigiis iter” e in Canzoniere, CLXII, 4: “et del bel piede alcun vestigio serbe”. Per arena si vedano i riferimenti dalle Georgiche e da Claudiano segnalati da Santagata; ma forse anche Dante, Inferno, 14, 13-5: “rena…soppressa” e 16, 40: “appresso a me la rena trita”.
schermo (v. 5): è parola prettamente dantesca; per la situazione (l’accorger de le genti) richiama le “donne de lo schermo” della Vita nova dantesca, seppur in altra accezione.
scampare (v. 5): è verbo frequente nel Canzoniere; l’antecedente è forse Al poco giorno, v. 22 citato da Santagata: “per poter scampar da cotal donna”.
manifesto accorger (6): come il sentimento del poeta traspare dal suo volto, così l’accorgersi di esso da parte delle genti è palese al poeta. “Manifesto” è aggettivo di molta fortuna in Dante. Più che le genti accorte della canzone montanina (Amor, da che convien, v. 67: “Lasso, non donne qui, non genti accorte”), che ha diverso significato, pare calzante il richiamo “Non se ne son ancora le genti accorte” di Dante, Paradiso, XVII, v. 7 proposto da Santagata. Interessante comunque che nella “montanina” la situazione è ribaltata: in Dante l’io cerca il conforto delle genti accorte, cui poter lamentarsi del suo dolore, mentre in Petrarca si rifugge dalla compagnia, come già avveniva nella Vita nova. Si può proporre anche Cavalcanti, Vedete, ch’i son un che vo piangendo, vv. 9-12: “che fa ‘n quel punto le persone accorte,/ che dicono infra lor: ‘Quest’ha dolore,/ e già, secondo che ne par de fòre,/ dovrebbe dentro aver novi martiri’”.
di fuor si legge com’io dentro (v. 8): per la tensione dentro/fuori Bettarini cita un passo di Arrigo da Settimello (che include anche la tematica del leggere), mentre Santagata riporta un verso di Palamidesse Bellindote, già proposto dal Trovato: “di for nom pare, e dentro divampi”. Per la metafora del leggere, Santagata cita invece Canzoniere, 147, 6: “del cor profondo ne la fronte legge” e altri rimandi si possono leggere in nota. Tra le fonti volgari, ad esempio, Guinizelli, Ch’eo cor avesse, vv. 13-4: “riguardimi se sa legger d’amore,/ ch’i porto morte scritta ne la faccia”. Si potrebbe aggiungere anche Gianni Alfani, De la mia donna vo’cantar con voi, v. 10: “come legger si può nel mio color”. Il topos cortese della trasparenza del cuore, era già siciliano (vd. ad es. Guido delle Colonne, Amor che lungiamente, vv. 40-1: “E’ allumo dentro e sforzo in far semblanza/ di no mostrar zo che ‘l mio cor sente” e 45-7:”e fanno vista di lor portamenti/ (così son volontieri ‘n acordanza)/ gli occhi co lo core insembremente”) e lo ritroveremo anche nella Vita nova, VII, 6: “di fuor mostro allegranza/ e dentro da lo core struggo e ploro” (3). Si confronti anche il già citato Cavalcanti, Vedete, ch’i son un.
sappian (v. 10): per la partecipazione degli elementi naturali, oltre agli esempi citati, si veda Canzoniere, 162, vv. 13-4: “non fia in voi scoglio omai che per costume/ d’arder co la mia fiamma non impari”.
tempre (v. 10): è termine che si riferisce alla maggior o minor durezza dei metalli (commento di Carducci-Ferrari). Sembrerebbe parola inaugurata da Dante, che peraltro ha un solo esempio in Purgatorio, XXX, v. 94, dove significa “armonie musicali”: “ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre”. Sette esempi invece nel Canzoniere.
altrui (v. 11): Zingarelli, solo fra i commentatori, sostiene trattarsi non delle genti, che già s’erano accorte, ma di Laura. Ma si veda Canzoniere, 163, vv. 3-4: “nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi,/a te palese, a tutt’altri coverto.”
sì aspre vie né sì selvagge (v. 12): aspre e selvagge rimanda a Dante, Inferno, I, 5, come nota il solo Santagata. Selve era già al v. 9.
cercar (v. 13): non mi sembra sia stato notato che qui cercare non ha il significato consueto, ma quello, registrato dal Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), di “percorrere un luogo al fine di trovare q[aulco]sa”. Il TLIO cita Cielo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima, vv. 59-60: “Cerca la terra ch’este granne assai/ chiù bella donna di me troverai”. Cfr. anche Canzoniere, 207, vv. 56-7: “Per cercar terra et mar da tutti i lidi/ chi po’ saver tutte l’humane tempre?”
ch’Amor non venga (13): Santagata cita Dante, Amor da che convien, 16-7: “I’ non posso fuggir ch’ella non vegna/nell’immagine mia”. Per la compagnia d’Amore, che vede tutto a differenza degli altri, vd. Canzoniere, 163, vv. 1-4: “Amor, che vedi ogni pensero aperto/ e i duri passi onde tu sol mi scorgi,/ nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi,/ a te palese, a tutt’altri coverto”.
ragionando con meco, et io co∙llui: per il motivo si veda Dante, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete (II, 2-4, v. 2): “udite il ragionar ch’è nel mio core”.
co∙llui: Bettarini rinvia a Canz., 32, 9: “perchè co∙llui cadrà quella speranza”.
Sono numerose le fonti individuate dai commentatori per questo sonetto. Notevoli sembrano i vv. 21-2 di Dante, Al poco giorno: “ch’io son fuggito per piani e per colli/ per potere scampare da cotal donna” citato da Santagata, il quale allega anche Giacomo da Lentini, Dal core mi vene, vv. 162-65: “Cantando † […]aivo †/ or vivo pur pensivo/ e tutta gente ischivo,/ sì ch’io vo fuggendo”: si noti, oltre agli aggettivi, quella perifrasi durativa, “vo fuggendo” che ricorda “vo mesurando” del v. 2. Per Maria Corti essa significa “il senso di un cammino interiore, che è prolungamento lirico dello stato d’animo (M. Corti, La lingua poetica avanti lo Stilnovo, Ed. del Galluzzo, 2005) e il giudizio s’attaglia perfettamente anche al nostro caso.
Analoghe movenze si ritrovano sia nel primo Guido, Ch’eo cor avesse, vv. 7-8: “tanto m’angoscia ‘l prefondo pensare/ che sembro vivo e morte v’ò nascoso” (mai citato se non erro), che in Rustico Filippi, Tutto lo giorno, vv. 1-4 (citato in nota dal solo Capovilla): “Tutto lo giorno intorno vo fuggendo/ credendomi campar, davanti Amore, e s’io trovo nessun, forte piangendo/ lo prego che mi celi al mio Signore./ Oi lasso, con’ gran pene soferendo/ condotto ho me medesmo in questo errore!/ chè, quando i’ sono assai gito languendo,/ io trovo Amor che m’è dentro dal core” dove si sarà notato il ritorno della perifrasi lentiniana “vo fuggendo”.
Del resto, questa è una tematica che percorrerà tutto il Canzoniere: si veda Canzoniere, 116. vv. 9 ss.: “In una valle chiusa d’ogni intorno,/ ch’è refrigerio de’ sospir miei bassi,/ giunsi sol cum Amor, pensoso et tardo. // Ivi non donne, ma fontane et sassi” o Canzoniere, 129, vv. 1 ss.: ”Di pensier in pensier, di monte in monte/ mi guida Amor, ch’ogni segnato calle/ provo contrario a la tranquilla vita”; vv.14-6: “Per alti monti e per selve aspre trovo/ qualche riposo: ogni habitato loco/ è nemico mortal degli occhi miei”. Ma uno sguardo al Secretum, oltre il consueto rimando all’episodio di Bellerofonte, può essere utile a precisare il significato della solitudine nel testo. Già all’inizio del trattato la solitudine è inserita in un orizzonte morale: “Calcatum publice callem fugias oportet et ad altiora suspirans paucissimorum signatum vestigiis iter arripias” (I, 3, 2). In un altro passo del secondo libro si aggiunge il tema della solitudine propizia alla poesia: Agostino ricorda a Francesco quante volte vagasse per i campi, mai solo tuttavia, perché accompagnato dalle Muse (“solis Musis comitantibus, nusquam solus”). Ma da cosa fuggiva Francesco? Egli cercava rifugio dal trambusto cittadino di Avignone, esprimendosi con queste parole: “ego sepe circumspiciens in infernum vivens descendisse michi videor”. I nunc, et honestis cogitationibus incumbe!” Ma Agostino risponde che è inutile la fuga a chi porta con sé la propria angoscia; viceversa, una volta approdati alla tranquillità interiore, si può risiedere anche in mezzo al pubblico frastuono. Si noti la metafora utilizzata da Agostino (II, 16, 13): “Itaque velut insistens sicco litori tutus, aliorum naufragium spectabis […] tantum gaudii afferet propriae sortis, alienis periculis collata, securitas” [Pertanto, come stessi al sicuro sull’asciutta spiaggia, guarderai l’altrui naufragio […] tanta gioia ti darà la sicurezza della tua condizione messa a confronto col pericolo altrui”]. Ora, sia il motivo della descensus ad inferos da vivi, che la metafora dell’uomo sicuro sulla spiaggia che guarda il mare pericoloso, ci rimandano al primo e secondo canto dell’Inferno dantesco; del resto molto lessico del sonetto ricorda quello della Commedia: deserto, a passi tardi et lenti, occhi… intenti, schermo, accorger de le genti, piagge, tempre.
Mentre Dante fugge dalla selva selvaggia e aspra e forte del traviamento morale e per accedere alla suprema visione dell’Empireo deve scendere vivo nell’inferno, Petrarca fugge dall’inferno cittadino rifugiandosi nelle vie aspre e selvagge della solitudine alpestre, con un movimento verso l’alto, dunque, simmetrico a quello di Dante-personaggio. Tuttavia, come abbiamo visto, si tratterà di un falso remedium, perché il suo io lo raggiungerà ovunque. Petrarca, riecheggiando Seneca, si dichiara in fuga impossibile da se stesso. Si legga a questo proposito De vita solitaria, I, V, 3: “Sed quid locorum solus introitus, quid ambiti vehunt amnes, quid lustrate iuvant silvae, quid insessi prosunt montes, si, quocunque iero, animus me meus insequitur, talis in silvis, qualis erat in urbibus?” E si veda anche il sonetto CCLXXXI, 1-2: “Quante volte, al mio dolce ricetto/ fuggendo altrui et, s’esser pò me stesso” e la canzone 360, vv. 54-5: “né costui [Amore] né quell’altra mia nemica/ ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto”.
Ecco quindi il paragone topico della letteratura cortese (derivato in Petrarca da Eneide, IV, 69-73) della cerva che fugge con una freccia confitta nel fianco: “Huic ergo cerve non absimilis factus sum. Fugi enim, sed malum meum ubique circumferens” (Secretum, III, 8, 7).
Il sonetto CCXXXIV, allora, non è il ribaltamento ma il logico sviluppo dell’inane ricerca della solitudine disseminata in Solo et pensoso e negli altri testi che abbiamo ricordato: “e ‘l vulgo a me nemico et odioso/ (chi ‘l pensò mai?) per mio rifugio chero: / tal paura ò di ritrovarmi solo”. Allo stesso modo Agostino biasima Francesco per aver cercato la solitudine e cita i due versi di Ovidio: “Quisquis amas, loca sola nocent, loca sola caveto./ Quo fugis? In populo tutior esse potes”.
Nel sonetto tale esito, paradossale rispetto all’essere fabula vulgi, motivo additato dal v. 6 e inaugurato già dal sonetto proemiale, è ancora in una fase germinale, mentre lo sdoppiamento di sé viene rappresentato drammaticamente nell’ultima terzina, con quel verbo, ragionare con, che in apparenza segna un progresso rispetto al solitario pensare dell’inizio, che ogni comunicazione, invece, negava. Nel sonetto si ha il passaggio, dunque, da una comunicazione esteriore negata, segnata da un reciproco ma tutt’altro che solidale guardarsi (gli occhi del v. 3 intenti a sfuggire ogni traccia umana, l’accorgersi delle genti, a sua volta evidente, manifesto all’Io) a una comunicazione accettata (“ragionare con meco, et io co∙llui”) ma tutta recitata nel teatro interiore: nel mezzo lo scenario naturale, che da tradizionale oggetto di contemplazione si umanizza, come scrive Stierle, e si fa soggetto che guarda l’Io (divenuto, a sua volta, oggetto) e ne conosce, ne sa (v. 10), le ferite.
Bibliografia
R. Bettarini, Commento a F. Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, Torino, Einaudi, 2005.
M. Santagata, Commento a F. Petrarca, Canzoniere, Milano, Mondadori, 20083.
P. V. Mengaldo, Prima lezione di stilistica, Roma-Bari, Laterza, 20073, pp. 9-11.
G. Lonardi, Per un omaggio del Petrarca (R. v. Fr., XXXV), in Medioevo e Rinascimento veneto, con altri studi in onore di Lino Lazzarini, Padova, Antenore, 1979, vol. I, pp. 151-60.
K. Stierle, Petrarcas Landshaften, Krefeld, Scherpe Verlag, 1979.