“Alla luce del sole” di Vincenzo Cerami
Recensione di “Alla luce del sole” (Mondadori, 2013) di Vincenzo Cerami.
Alla luce del sole (Mondadori, 2013, 16 euro, pp. 148) di Vincenzo Cerami (autore, tra i tanti volumi, dell’immortale Un borghese piccolo piccolo) si confà, fin dalle primissime battute, su una necessità di dire espresso nella più piena sincerità un rapporto in cui il raccordo mistico tra la langue e parole si attua effettivamente in modo luminoso senza la necessaria oscurità.
Recentemente onorato del “Premio Alfonso Gatto”, Vincenzo Cerami si costituisce poeta di cose; la sua poetica è un inno dichiaratamente anti-ermetico dove emblematici referenti reali si configurano come motivi poetici operanti nello spazio bianco ‒ ma sporcato ‒ di una pagina o poco più. Saranno donne reali, la «Flavia» che «non è tipo / da lasciarsi intimorire» (p. 40) incarnante una realtà squallida, e perché squallida viva, a divenire figure forti, referenti diretti, interlocutori mancati (l’io si rivolge sempre al di fuori ma non instaura, almeno spesso, contatti) e ripresi da uno spirito poetico capace di lasciare il proprio segno personale su una direzione anti-storica rispetto alle riflessioni sul linguaggio della poesia degli ultimi decenni (penso a Luzi, ma anche ai più recenti Conte o Pusterla).
L’aderenza del reale alla poetica è scevra di ogni drammaticità, eppure si compie con un’esibizione ambigua ma piana che ricorda gli stilemi montaliani di Xenia e Satura. L’autore si dipinge incapace ‒ ma c’è da scorgere in realtà l’accidia verso i modi della poetica della parola fine a se stessa ‒ a scrivere/descrivere ciò che non esiste nel mondo visivo «Beccheggiano gli alberi laggiù / e tu declami: “lo vedi il vento?”. / Oh estrosa Margherita mia, / mi manca, ahimè, la fantasia. / Vedo solo / uno sperticar di rami» (p. 42) eppure sul gioco inscenato su ritmi allitteranti ora di vocali ora di consonanti, ecco che si realizza una civettuosa ironia di sé, del lettore e del patto tra esso e l’autore. La dichiarazione sulla fantasia e chiara, eppure anche chi è meno avvezzo alla lettura profonda si sarà accorto che gli alberi non beccheggiano. Allora dov’è il gusto del vero, Cerami? Nella visio di un’estetica personale, di uno sguardo, ecco il ruolo della poesia, deformato nella misura in cui si possa cogliere l’operazione alla base della sterzata, e il monito, la voglia di «tornare analfabeta» (p. 55) sarà pure esposta ma nasconde l’archetipo magico del mitico Orfeo (chiamato in causa a p. 125).