Alejandra Pizarnik: “Poesie francesi” # traduzione di Paulina Spiechowicz
Le “Poesie francesi” di Alejandra Pizarnik. Traduzione di Paulina Spiechowicz.
Nuda. Sonno del corpo trasparente come un albero di vetro. Senti vicino a te il rumore brutale d’un desiderio inestricabile. Notte ciecamente mia. Sei più lontano di me. Orrore del cercarti nello spazio riempito dalle grida della mia poesia. Il tuo nome è la malattia delle cose a mezzanotte. Mi avevano promesso un silenzio. Il tuo volto è più vicino a me, che non il mio. Memoria fantasma. Si amerebbe uccidere.
Come amerei ucciderti.
***
Ti cerco nel vento. Non sei un grido. Ma ti cerco nel vento.
La notte m’apre e sei tu.
Ritorna ancora una volta. Il tuo volto inesprimibile mi ha detto cos’è la mia ferita. I tuoi occhi accecano tutto, anche la notte, il tuo nome scritto dentro di me.
Ritorni come sempre. I tuoi occhi sono il solo movimento verso l’altra faccia della morte.
Ogni parola sei tu a volerla dire. Ogni parola è una lunga iniziazione al ricordo.
Ritorni, mentre la notte suona e gli specchi suonano e tutto si lacera nel suo essere a causa della tua assenza.
Vorresti avere dei rapporti con il vento, il cielo. Per cercare un gesto terribile, una maniera d’essere senza di te, un impossibile.
I tuoi occhi cominciano nei miei occhi che non ti vedono più. Cominciano nella mia voce che non ti parla più. Muoiono nelle mie mani che non ti toccano più. I tuoi occhi si disegnano sulla mia pelle. Sono atroce, da vedere, adesso. Tetro tatuaggio. Faccio la pioggia e il sole. A discapito dei tuoi occhi nei miei occhi.
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E cosa pensare del silenzio? – Dormire sì, lavorare qualche giorno con il sogno e risparmiarmi il silenzio. Bisogna capovolgere così tante cose in così pochi giorni, fare un viaggio così lungo in così pochi giorni. Mi dicono: scegli il silenzio oppure il sogno. Ma sono d’accordo con i miei occhi aperti che dovrebbero andare – andare e mai tornare – a questa zona di luce vorace che ti mangerà gli occhi. Vuoi andare. È necessario. Piccolo viaggio fantasma. Qualche giorno di lavoro forzato per il tuo sguardo. Sarà come sempre. Questo stesso dolore, questa disaffezione. Questo non-amore. Si muore di sonno, qui. Ci si vorrebbe dare il più presto possibile. Qualcuno ha inventato questo piano sinistro: un ritorno allo sguardo antico, andare alla ricerca d’un’attesa e due occhi blu nella polvere nera. Il silenzio è tentazione e promessa. Lo scopo della mia iniziazione. Il principio di ogni fine. È di me che parlo. E bisogna andare a vedere, almeno una sola volta, se per una volta sola ti sarà ancora dato di vedere. Si muore di sonno. Non ci si muove più. Si è stanchi. Ogni osso ed ogni arto ricorda i suoi antichi malori. Sofferenti, ci si arrampica, si danza, ci si trascina. Qualcuno ha promesso. Parlo di me. Qualcuno non può più.
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Se per una volta ancora lo sguardo blu nella sacca piena di polvere – parlo di me, ne ho il diritto – questa attesa, questa pazienza – se per una volta ancora – chi mi capisce? – parlo dei giocattoli rotti, parlo di una sacca nera, parlo dell’attesa, parlo di me, posso farlo, devo farlo. Se tutto quello che chiamo non viene una sola volta ancora una volta qualcuno dovrà ridere, qualcuno dovrà festeggiare uno scherzo atroce – parlo della luce sporca che corre attraverso la polvere, gli occhi blu che pazientano. Chi mi capisce? Ancora una volta la piccola mano penetra tra i giocattoli rotti, lo sguardo di colei che attende, ascolta, comprende. Gli occhi blu come una risposta a questa morte che mi è accanto, che mi parla e che sono io. Se per una volta ancora i miei occhi terrestri, la mia testa gioiosa nella sacca nera, i miei occhi blu che sanno leggere quello che esprime la polvere, ed è una scrittura così penosa. Se per una volta ancora.
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Tutta la notte ascolto il rumore dell’acqua piangendo. Tutta la notte faccio la notte dentro di me, faccio il giorno che comincia per colpa mia, che piange perché il giorno cade come l’acqua nella notte.
Tutta la notte ascolto la voce di qualcuno che mi cerca. Tutta la notte mi abbandoni lentamente come l’acqua che piange cadendo lentamente. Tutta la notte scrivo messaggi luminosi, messaggi di pioggia, tutta la notte qualcuno mi cerca e cerco qualcuno.
Il rumore dei passi nel vicino cerchio di luce collerica che nasce dalla mia insonnia. Dei passi di qualcuno che non mi scrive più, che non scrive più. Tutta la notte qualcuno si trattiene e percorre il cerchio della luce amara.
Tutta la notte affogo nei tuoi occhi che sono i miei occhi. Tutta la notte impazzisco cercando l’abitante del cerchio del mio silenzio. Tutta la notte vedo qualcosa crescere fino al mio sguardo, qualcosa d’una materia silenziosa e umida e che fa il rumore di qualcuno che piange.
L’assenza soffia grigia e la notte è densa. La notte ha il colore delle palpebre morte, la notte vischiosa, esalante olio nero che mi prende la testa e mi fa cercare un luogo vuoto senza caldo e senza freddo. Tutta la notte fuggo qualcuno. Conduco l’inseguimento e la fuga. Canto un canto di lutto. Uccelli neri su teli neri. Grido mentalmente. Il vento nega. Me ne vado dalla mano rigida e tesa, non voglio sapere altro se non questo gemito perpetuo, questo rumore nella notte, questa lentezza, questa infamia, questa ricerca, questa inesistenza.
Tutta la notte so che l’abbandono sono io. Che la sola voce piangente sono io. Si può cercare con delle lanterne, e percorrere le menzogne d’un ombra. Sentire che il cuore è nelle gambe e l’acqua nei luoghi antichi del cuore.
Tutta la notte ti chiedo perché. Tutta la notte mi dici di no.
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Il sesso, la notte.
Una volta ancora, qualcuno cade nella sua prima caduta – caduta dei due corpi, dei due occhi, dei quattro occhi verdi o degli otto occhi verdi se si contano anche quelli che nascono dagli specchi (a mezzanotte, nella paura la più pura, nella perdita), non hai saputo riconoscere la voce del tuo lugubre silenzio, non hai saputo vedere i messaggi terrestri che si disegnano nel mezzo di uno stato di pazzia, quando il corpo è un bicchiere e si beve da sé e dall’altro una sorta d’acqua impossibile.
Inutilmente il desiderio versa su di me un liquore maledetto. Per la mia sete assetata, cosa può la promessa di uno sguardo? Parlo di qualcosa che non è di questo mondo. Parlo di qualcuno che ha il suo scopo altrove.
Ed ero nuda nel ricordo della notte bianca. Ero ubriaca e ho fatto l’amore tutta la notte, esattamente come una cagna malata.
A volte si riconosce troppa realtà nello spazio di una notte sola. Ci si spoglia, e si è presi dall’orrore. Si sa che lo specchio suona come un orologio, lo specchio da dove nascerà il grido, la tua ferita.
La notte s’apre una volta sola. Quanto basta. Vedi. Tu hai visto. La paura d’esser due nello specchio, e subito si è quattro. Si grida, si geme, la mia paura, la mia gioia più orribile della mia paura, le mie parole oscene, le mie parole sono chiavi per chiudermi nello specchio, con te, ma sempre sola. E so bene di cosa è fatta la notte, si cade così profondamente nella mascella che non ci si aspettava questo sacrificio, questa condanna per i miei occhi che hanno visto. Parlo d’una scoperta: aver sentito l’io nel sesso, il sesso nell’io. Parlo di lasciar perdere la paura d’ogni giorno per la paura d’un istante. Perdita la più pura. Ma chi me lo dirà: non piangere più nella notte? Perché anche la follia è una menzogna. Come la notte. Come la morte.