Alcune annotazioni sulla traduzione Einaudi di Arnaut Daniel
Il piccolo e – a mio personale avviso – pregiato volumetto dell’Einaudi sulle poesie di Arnaut Daniel dal titolo riassuntivo Sirventese e Canzoni raccoglie la produzione, diciotto componimenti, del più famoso e importante trai trovatori provenzali. Questo mio piccolo contributo nasce da alcune annotazioni intercorse durante la lettura del libro ed è bene specificare fin da subito che il parere complessivo non può che essere positivo: al pregio dei versi dell’autore medievale vanno sommate la sicurezza editoriale di Giosué Lachin, il quale a fine del volume pone un breve ma esauriente commento, e la traduzione preziosa del professore e poeta Fernando Bandini.
Proprio la traduzione di Bandini è la “croce e delizia” del volumetto (e delle mie meno preziose annotazioni), innanzitutto è bene sottolineare la capacità espressiva di Bandini, la sua più che una traduzione sembra essere un’operazione di diversificazione, in cui le parole si trasformano e, a volte con base latina, a volte prese da locuzioni dialettali, danno una nuova capacità espressiva alle, ormai, quasi millenarie poesie di Arnaut Daniel. I versi sembrano essere quasi usciti da una delle raccolte di Bandini sono, infatti, fisici, sublimi, in una sola parola: vivi.
Eppure questa capacità poetica, oggi sempre più manchevole e preziosa, è l’altra faccia (negativa) della medaglia. Si arriva alle annotazioni (spiego fin da ora che il titolo delle poesie citate è riportato nella forma originale): nel primo componimento Puois en Raimons en Trucs Malecs, il termine grecs viene tradotto con gromma (l’incrostazione lasciata dall’acqua o dal vino in un recipiente), scelta che non sembra essere del tutto apprezzata dallo stesso curatore; in effetti gromma è, per lo stesso Lachin nelle note a fine volume, insufficiente per spiegare grecs, in realtà il termine è difficile da interpretare. In questo caso si è davanti ad una vera e propria oscillazione del significato, tipica del fenomeno del trobar clus.
Preme sottolineare un altro paio di significative disattenzioni occorse alla canzone III Can chai la fueilla. Innanzitutto, Bandini in traduzione pospone la sesta strofa alla settima, il motivo vorrebbe essere scientifico: la strofa in questione, la sesta, è oggetto di una discussione filologica, alcuni editori, infatti, la ritengono nulla più che una variante d’autore. Bandini, che sembra attenersi all’edizione Canello, risalente alla seconda metà dell’Ottocento, considera valida la strofa e la pone a testo, ma quasi per non fare un torto a nessuno la pospone. L’azione mi sembra dubbia, sebbene non sia un’edizione critica non capisco la necessità di non scegliere soprattutto laddove non vi è la presenza di una nota a testo, almeno per ciò che riguarda l’originale (dove invece le strofe hanno l’ordine corretto), che spieghi l’operazione. Sulla medesima canzone è, poi, piuttosto discutibile la traduzione del v. 28 in italiano reso con: «quando si parte ’l gioco della zara / colui che perde si rima dolente». Ora, il lettore accorto avrà notato che si tratta di una citazione dantesca (Purg., VI 1-3), era davvero necessario? Credo di no, in questo modo si rischia di dare al lettore comune un’idea di legame che effettivamente non esiste, probabilmente a giocare il ruolo negativo sarà stata la competenza ed ispirazione del Bandini.
Non si vuole esagerare con le critiche, e si è scelto di sottolineare solamente le incongruenze più evidenti, il lavoro di Bandini è ottimo e l’ultima poesia, la famosa sestina Lo ferm voler qu’el cor m’intra, viene tradotta con una sensibilità fuori dal comune, con cui Bandini riesce perfino a salvaguardare il tessuto metrico, segno distintivo del genere, il risultato è talmente elevato che quasi viene da domandarsi se la traduzione non meriterebbe di trovare spazio, come testo a sé, nella breve lista d’uso del metro tra le grandi sestine petrarchesche ed i retorici tentativi cinquecentini.
Mi duole chiudere con la critica necessaria alla traduzione di alcuni versi tra i più belli di Daniel, il piccolo auto-specchietto dato alla fine di En cest sonet coind’e leri:
Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna
Bandini traduce:
Io sono Arnaut che stipa i suoi granai di vento,
va a caccia della lepre con un bue
e nuota contro la marea che sale.
Il secondo verso tradotto non presenta alcun problema, il significato è esplicitato da alcuni proverbi provenzali e Bandini è fedele al testo originale. I problemi sorgono in parte nel terzo verso e soprattutto nel primo. Partiamo dalla fine, la parola suberna viene intesa da Bandini come «marea che sale», in realtà il significato è un poco più particolare, la parola provenzale rimanda in realtà alla corrente dei fiumi montani ed in questa caso non si può non notare che il frame metaforico è stato spostato dall’originale montagna al mare della traduzione; segniamo e mettiamo da parte passando al primo verso, prima, però, è necessaria una breve precisazione: il toblar clus è un particolare modus poetandi con cui alcuni tra i principali trovatori francesi, o meglio la corrente provenzale, che vede in Arnaut Daniel il massimo rappresentante, ha cercato di mettere in poesia una serie di figurazioni ed emozioni, sentimenti, assiomi morali o meno, tutto ciò che riguarda l’argomento poetico, ma perché toblar clus? Perché il risultato finale prevede una fusione densissima tra significato, significante ed espressione visiva del verso, e l’equazione potrebbe essere descritta come tanto è complesso il verso tanto esso, nascondendo significati e mascherandone altri, è bello, la ricchezza espressiva fa protendere alcuni studiosi moderni per l’espressione toblar riche al posto del clus. Ora il verso di Arnaut prevedeva un gioco tra i significati del nome proprio che in provenzale richiama il latino fol “folle” vicinissimo ad un’altra parola, follis “sacca d’aria”, ecco che uno dei significati potrebbe essere «io sono la sacca che ammassa/raccoglie l’aria», in secondo luogo rimanendo sul fol, il senso potrebbe essere «io sono il folle che ammassa/raccoglie l’aria», e siamo a ben due significati a cui è da aggiungere quello letterario: «io sono Arnaut che ammassa l’aria». La traduzione di Bandini scioglie completamente ogni allusione è questo, nel caso specifico, è una perdita considerevole. In tutto questo dipanarsi di significati si è perso, inoltre, un valore importantissimo, quello visivo: il verso «Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura» è vicinissimo alla locuzione «io sono Arnaut che ama l’aria» e se volessimo quasi giocare con le parole, pensando a Petrarca -sebbene quest’ultima sia solamente una provocazione- legando le parole “l’aura” esse potrebbero anche avere un valore nominativo di una donna eterea come quella amata dall’aretino. Non credo che sia il caso di spingerci così oltre, soprattutto in questa sede, ma ciò che è importante da sottolineare è che, sebbene, si sia davanti ad una traduzione più che pregevole alcuni valori della poesia originaria si sono persi.
Questo piccolo intervento non vuole in nessun modo criticare l’operazione editoriale, anzi, porre l’attenzione su alcune imprecisioni, che probabilmente saranno state considerate come inezie ma che in taluni casi smascherano l’importanza di un approccio metodologico e scientifico alla traduzione di ogni testo.