Elena di Euripide: il teatro dell'INDA nel piccolo schermo

Elena di Euripide: il teatro dell’INDA nel piccolo schermo

Il bacino d’acqua del “Nilo” fa da sfondo a questo suggestivo – moderno ma non troppo- revival dell’Elena di Euripide andato in scena nella stagione tragica di Siracusa del 2019, e mandato in onda su Rai5 giusto l’altra sera, sabato 24 agosto, per il ciclo teatrale “il destino delle eroine”.

Portare sul piccolo schermo gli illustri gioielli curati dalla Fondazione INDA e, in generale, rendere il teatro fruibile a tutti, anche a quanti restino comodamente seduti sulla poltrona del salotto di casa propria, è sempre un’operazione interessante e che rende senz’altro gran merito alla Rai; farlo d’estate, e a odierna rassegna dell’INDA in chiusura, rende l’ottava arte una sorta di prolungamento del teatro stesso, che può quindi ottenere continuità e sèguito spalmati su più canali di diffusione.

L’acqua dunque, e, quasi coordinato a essa, l’elemento dello specchio, che riflette e non riflette – immagine reale o falsata del sé?! – l’eidolon di Elena, la fa da padrona alla visione di Davide Livermore, che mette sulla sua scena un’Elena dai lunghi capelli bruni, quelli di Laura Marinoni, e dall’aria crucciata, angustiata e sofferente ma fondamentalmente innocente, in quanto lei stessa vittima di “un assurdo scherzo degli dèi”.

Un’Elena “trafugata” in Egitto, quindi, alla corte di un re, Teoclimeno, dalle comiche fattezze goldoniane, con trucco e costumi da Venice Carnival e con locuzioni e inflessioni contraddistinte da mollezza, come «molle» i tragici e gli storici greci del V secolo d’altra parte recepivano e pittavano la corte egiziana e in generale la civiltà egizia, fatta di unguenti, profumi, moine e ricche vesti quasi alla maniera persiana, e così barbara e dissimile dalla civiltà greca.

Quella che abbiamo rivisto in scena sabato scorso è, di fatto, un’Elena “ingannata”, che soffre la condizione dell’essere una rifugiata in terra straniera (il leitmotiv forse più ricorrente fra tutti); un’Elena che mai ha gioito delle grazie di Paride quali promessi proventi di Afrodite, e che non ha mai tradito nessuno, né marito, né la Grecia patria.

L’Elena di Euripide, ripresa da Livermore, è una donna pura, e per ciò stesso la sua immagine è già riscattata dalla solita impietosa fama che la accompagna, ed è una donna che ancora pensa al suo legittimo consorte, Menelao, e che soffre per non voler affatto sposare il signore che governa la terra barbara in cui si trova, conseguenza inevitabile della condizione di costrizione in cui versa.

Come in poche altre fra le tragedie di Euripide che ci sono state restituite dall’antichità, nell’Elena l’elemento casuale e rocambolesco, che era stato tipicamente esclusivo della commedia, è quella variante indispensabile che porta il mutamento della tyche dei protagonisti, nonché il ribaltamento della condizione iniziale, nel presente caso da disperata, in kairòs, “occasione” e momento propizio e opportuno per pensare a un piano e scappare dall’Egitto. Elena ritrova Menelao, casualmente, rocambolescamente, proprio quando ormai non può più sfuggire alle ingerenze di Teoclimeno, che vuole farne la propria sposa, convinto che oramai Menelao sia morto. Dal canto suo, Menelao (un fascinoso Sax Nicosia che si presenta come un regale sempre dignitoso ma oramai privo di qualsiasi postura e arroganza tipicamente tiranniche) usa lo stratagemma dell’inganno per non farsi scoprire, qual lui è, alla corte di Teoclimeno, e con una furberia riesce a sottrarre non solo sé stesso alle terre d’Egitto, ma pure Elena, che, chiaritasi con lui, lo segue per far ritorno a Sparta.

È così che Davide Livermore, nella bella traduzione a cura di Walter Lapini, rimane fedele ad Euripide riproponendo sulla scena il chiarimento che fu nota distintiva, portatrice del pensiero condiviso dell’epoca, indicante uno stacco e una evoluzione rispetto ai tragici precedenti, e perciò rivoluzionario: c’è un principio di giustizia che regola le cose del mondo, a cui non solo gli dèi, rispetto ai capricci iniziali, sono infine tenuti ad attenersi, ma ovviamente anche gli uomini, e, a questo, neanche un re può sottrarsi.

Difatti, nella scena finale della tragedia, da deus ex machina, atti a portare l’intervento risolutivo e definitivo, ricordano e chiariscono i Dioscuri (tra cui un Wladimir Randazzo molto diverso dalle scene cui ci ha abituato nella soap serale made in Italy Un posto al sole): «sei re quando segui la giustizia, non quando la contrasti» e «gli dèi non odiano i valorosi, ma li costringono a prove più dure rispetto ai comuni mortali». Perché ciò che proviene da un dio non può, mai, essere del tutto ingiusto. E di conseguenza anche Teoclimeno, sebbene controvoglia, dovrà accettare che un qualche principio supremo di giustizia ha già contemplato il ricongiungimento tra Elena e Menelao – e conseguente, agognato, lieto fine.

Codesta rappresentazione teatrale, oltre ai sopra citati interpreti blasonati e riconosciuti a furor di popolo, ha potuto inoltre vantare la presenza di: Mariagrazia Solano (nel ruolo di una vecchia all’ingresso della corte d’Egitto), Simonetta Cartia (una straordinaria Teonoe veggente-soprano), e le giovani e talentuose Viola Marietti, Maria Chiara Centorami, Federica Quartana; una pièce fatta perlopiù di voci femminili, anche per molti ruoli maschili, a dispetto dell’antico canone che prevedeva l’esclusività degli uomini al lavoro attoriale.