«La porcellana tace» di Lela Zečković
Recensione di La porcellana tace di Lela Zečković (Di Felice, 2021 – traduzione di Patrizia Filia). Articolo di Johan Velter (l’articolo, tradotto dal nederlandese da Samantha Volponi, è stato pubblicato su sfcdt.wordpress.com col titolo Het achteloze van Lela Zečković).
Lela Zečković è una poetessa ‘poco appariscente’ (attenzione ai ‘poeti poco appariscenti’), parla con tono pacato osservando la vita di ogni giorno, ma sono presenti anche lampi di presa di coscienza, immagini intuitive (come la luce del sole che di colpo cade sul tavolo e attraverso il colore rende comprensibili le cose e il mondo), momenti che vanno oltre il momento – la poetessa non poetizza la vita ma la rende consapevole – la distanza tra il conservare le cose e il difenderle, fa parte del comportamento umano (non il collegamento). Prendiamo una poesia come Tempo partorisce rose, una variante, forse, di ‘il tempo porta consiglio’, ma anche di ‘la calma dopo la tempesta’, come a dire, poi andrà tutto meglio. La prima strofa viene presentata in maniera noncurante, non ci sono termini spettacolari o costruzioni di frasi ricercate, si parla di qualcosa eppure ci viene comunicato qualcosa di insolito (È innaturale che non mi sia resa conto), la doppia negazione rende la comprensione sempre complessa: si tratta di un incidente avvenuto, però distante e la distanza tra l’io e lo spazio lassù, tra il pomeriggio, qui ed ora, e l’aereo è enorme e adesso è come se fossimo finiti nel dipinto La caduta di Icaro di Breugel, l’aereo come Icaro e l’io come il contadino intento ad arare o il pastore che ha volto le spalle a ciò che sta accadendo:
È innaturale che non mi sia resa conto
che fosse pomeriggio e che un aereo
con la bianca scia levata in alto
di colpo avesse compiuto una gran volta
e fosse precipitato.
Nel progredire della poesia, quell’aereo viene abbandonato, come se non fosse precipitato, come se non ci fosse stata nessuna caduta, la discesa è un’illusione ottica. L’attenzione adesso va alla luce, e abbiamo un contrasto: la luce naturale si smorza, la luce artificiale si accende, da notare il moto rosa-smorzarsi-accendersi:
La luce è rosa, si smorza
le luci della sera si accendono.
La terza strofa è il pensiero che unisce la prima e la seconda strofa; anche la bianca scia della prima strofa è luce: è artefatta (non è naturale), crea contrasto (si staglia contro l’azzurro del cielo) e ci rende consapevoli:
Il meglio in tutto ciò che accade
è la mano umana che la luce
accende e spegne,
mette su carta una frase,
tocca e sgualcisce
i guanti italiani di capretto glacé,
e rimane nonostante tutto
a respirare dai pori,
persino posata noncurante
sul ripiano del tavolo.
Ora quel movimento viene protratto nella poesia: le mani diventano guanti (italiani, l’eleganza e la qualità sottolineate in questo modo, guanti glacé, accuratamente descritti, fatti di pelle fine, morbida e lucida) dai quali i pori continuano a traspirare – è la mano che, nonostante sia nascosta dai guanti, respira e rimane presente (nei guanti). L’immagine dell’aereo che lascia una scia dietro di sé ritorna: la mano lascia una traccia nel guanto, non solo c’è la forma, ma anche il movimento; il togliersi il guanto non è la fine né di una cosa né dell’altra perché entrambe rimangono unite. Ciò che viene descritto si attua nella poesia: il movimento della mano forma una frase e noi leggiamo la frase anche dopo la morte della poetessa, che non muore.
Il noncurante e dettagliato sul ripiano del tavolo rende l’ultima strofa esatta: nella conclusione non può venirci proposta un’idea generale, astratta; la concretezza delle cose dice abbastanza. Quei guanti non rimarranno posati: c’è un futuro. Il movimento della poesia, le mani che fanno qualcosa, ha un pendant nel titolo: il tempo è movimento e le rose promettono un futuro roseo. Si trattava più di stropicciamento – catastrofico, inospitale, minaccioso – ma comunque dell’avere un approccio noncurante (non appariscente) col pericolo e col male, col lasciare andare – e il continuare.
La porcellana tace nella traduzione di Patrizia Filia, è stata pubblicata per la prima volta nel 2020 dalla casa editrice LietoColle di Michelangelo Camelliti e ripubblicata per sua gentile concessione da Di Felice Edizioni nel 2021.
Ritratto fotografico di Lela Zečković di Pieter Vandermeer, realizzato nel 1980 durante il Poetry International Rotterdam.
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Il 9 febbraio 2018 moriva a Trieste la poetessa Lela Zečković. Diciotto anni prima si era trasferita da Amsterdam, dove aveva vissuto per oltre quarant’anni, nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia per essere più vicina alla sua terra natale, l’attuale Croazia. Era nata il 6 febbraio 1936 a Varasdino, dove aveva goduto di un’infanzia spensierata in seno ad una famiglia borghese. A Zagabria aveva studiato Filosofia e incominciato a frequentare gli ambienti letterari della città. Nel 1959 si era trasferita ad Amsterdam, dove aveva sposato il poeta Hans Faverey (1933-1990), conosciuto precedentemente durante un viaggio di lui in Jugoslavia. Nella città olandese aveva proseguito i suoi studi universitari imponendosi poi come docente di Slavistica, poetessa e traduttrice di opere di Danilo Kiš, Miroslav Krleža, Aleksander Tišma, Paul van Ostaijen e Nescio. Per la sua prima raccolta di poesie in nederlandese, Belvédère, aveva ricevuto nel 1983 il premio Lucy B. e C.W. van der Hoogt. Il suo grande e palese talento letterario risiede nella formulazione mozzafiato, nella prontezza e nel senso impeccabile del valore della parola poetica. La presente traduzione in italiano contiene le raccolte di poesia Belvedere e Lapislazzuli e la raccolta di prosa Una strada con castagni, che insieme compongono l’intera opera letteraria di Lela Zečković in nederlandese.