“In altre parole” di Jhumpa Lahiri
Recensione di “In altre parole” (Guanda, 2015) di Jhumpa Lahiri.
In altre parole di Jhumpa Lahiri raccoglie una serie di brevi saggi usciti precedentemente su “Internazionale“ eppure, a lettura ultimata, si ha l’impressione di aver letto un appassionato romanzo d’amore.
Di certo per la bravura della scrittrice, ma – soprattutto – per il tema che lega ogni capitolo del libro: l’innamoramento di Jhumpa Lahiri per la lingua italiana.
Esattamente come, inesplicabilmente, succede di innamorarci di qualcuno con cui all’apparenza non abbiamo nulla in comune, l’autrice di origine indiana ma di formazione americana, ha sentito un vero e proprio colpo di fulmine per la nostra lingua.
“Cosa riconosco? È bella, certo, ma non c’entra la bellezza. Sembra una lingua con cui devo avere una relazione. Sembra una persona che incontro un giorno per caso, con cui sento subito un legame, un affetto. Come se la conoscessi da anni, anche se c’è ancora tutto da scoprire. So che sarei insoddisfatta, incompleta, se non la imparassi. Mi rendo conto che esiste uno spazio dentro di me per farla stare comoda.”
In altre parole è dunque il racconto di una “relazione” sofferta, complicata, ma che alla fine ha portato Jhumpa Lahiri non solo a vivere in Italia ma anche a scrivere il suo primo libro direttamente in italiano.
Le riflessioni dell’autrice, tuttavia, vanno molto più in profondità e arrivano a toccare temi quali l’identità, l’esilio, l’estraniazione che spesso coglie gli scrittori.
“Com’è possibile sentirmi esiliata da una lingua che non è la mia? Che non conosco? Forse perché io sono una scrittrice che non appartiene del tutto a nessuna lingua.”
Jhumpa Lahiri, in effetti, è cresciuta in una famiglia che parlava il bengalese e solo in età scolare ha iniziato a parlare e studiare l’inglese, lingua matrigna che ha finito col surclassare la lingua materna.
L’incontro con la lingua italiana diventa dunque la lenta costruzione di un nuovo senso di appartenenza, di una “nuova patria” il cui ordinamento, il cui paesaggio, è fatto di una nuova grammatica e di nuove parole.
“Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di andare a dormire, mi immergo nell’italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più casa.”
Cresce dunque l’impulso di allontanarsi dalla lingua dominante, quella che dà sicurezza, che lo scrittore manipola magistralmente e usa come un consueto strumento di lavoro. Ma perché abbandonare la padronanza di una lingua conosciuta per una lingua nuova?
“Forse perché,” risponde Lahiri, “dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza.”
Costruirsi un recinto, uno spicchio di terra da curare e coltivare. Ciò che fa uno scrittore è, essenzialmente, usare la scrittura per filtrare l’enorme caos che lo circonda: scrivere è un modo per assorbire e sistemare la vita. Anche per Jhumpa Lahiri sembra essere così.
“Visto che io provo a decifrare tutto tramite la scrittura, forse scrivere in italiano è semplicemente il mio modo per apprendere la lingua nel modo più profondo, più stimolante. Fin da ragazza appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un Paese, una cultura precisa. Se non scrivessi, se non lavorassi alle parole, non mi sentirei presente sulla terra.”
La vera Patria di uno scrittore è allora soltanto la lingua, questo sembra dirci infine Jhumpa Lahiri, felice nella sua nuova vita romana, alle prese con una lingua che sente sempre meno imperfetta.
“Chi non appartiene a nessun posto specifico non può tornare, in realtà, da nessuna parte. I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt’altro. Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio.”