Il Mal del Tempo o della Telemachia di Paolo Di Paolo
Viaggio nel percorso narrativo di Paolo Di Paolo, partendo da “Tutte le speranze”, un libro che omaggia una figura fondamentale del Novecento: Indro Montanelli.C’è un Mal del Tempo che attraversa il percorso narrativo di Paolo Di Paolo. E in “Tutte le speranze”, dopo aver raccontato di Indro Montanelli, lo scrittore ha detto a se stesso: ora è il momento di andare oltre: “Chiudo i ritagli di giornale, i fascicoli, le lettere, tutto ciò che ho avuto sotto mano per scrivere questo libro. Non getto via niente, non cancello. Guardo il calendario: comincia un’altra stagione. Esco di casa, mi metto a camminare.”
Il Mal del Tempo ti prende quando non ti senti a tua agio con la data di nascita che ti è toccata in sorte, perché ti manca un pezzo di passato per capire il tuo presente. Come una nostalgia di quando non c’eri. Ne era affetto Volturno, personaggio di “Piazza d’Italia” di Antonio Tabucchi che incominciava dalla fine per raccontare il principio. Il mondo sembrava così non rispondergli che Volturno sparì nel deserto in una guerra coloniale assurda, nessuno ne ebbe più notizie. Perché l’Italia è una piazza che dà questo tipo di malessere: un non riconoscersi nella proprio paese, per mancanza di punti di riferimento, vuoto di Maestri: grigiore indistinto.
Se ne lamentava anche il giovane Italo Tramontana, protagonista di “Dove eravate tutti?” primo romanzo di successo di Paolo Di Paolo: nulla nella sua vita era accaduto senza che ci fosse al governo Berlusconi, onnipervasivo, onnipresente. Eppure c’era stata, prima che lui nascesse, un’altra Italia, si diceva il ragazzo che non a caso si chiamava Italo. Era stato il paese dei padri, ma anche loro adesso erano inetti, corrotti per frustrazione e quieto vivere. È lì che il Mal del Tempo morde più forte: “Non c’ero stato per parecchio tempo, nella vita di mio padre, era questo un pensiero raro, rarissimo, eppure in grado di lasciarmi sgomento”. E poi quando i padri deludono, dice ancora Italo: “Giudicare è troppo facile. Alzare il dito indice e puntarlo sull’incoerenza, cioè contro le debolezze umane, era così chiaramente la prima, la primissima cosa da fare che anticipava ogni altro pensiero. Ma bisognava intanto chiedersi: il valore restava un valore anche se il depositario lo aveva infranto?” Per curare il Mal del Tempo dunque bisogna andarsi a cercare coloro che il tempo lo hanno vissuto di più e ne sono stati testimoni. I padri appunto, che non sono perfetti, ma che comunque hanno lasciato un’eredità di valori, anche con le loro incoerenze: un testimone che i figli devono portare avanti, altrimenti c’è la sparizione di tutto, di tutti, la piazza d’Italia vuota di senso. La storia non basta per riempire questa assenza, perché le catena di cause ed effetti non ti porterà il tumulto di passioni e sentimenti che hanno animato gli eventi. La vita che c’è stata prima per capire la vita che tu sei adesso. Non la trovi sui libri, bisogna ascoltare le voci di chi c’era. Bisogna andarseli a cercare i padri, guardarli per quello che sono e riconoscerli nel loro valore.
Questo gli antichi lo sapevano bene. L’Odissea si apre con Telemaco esasperato dai prepotenti che banchettano in casa sua, i Proci, gli arroganti del potere, i corrotti. Anche Telemaco ha il Mal del Tempo, ha problemi col suo presente: ogni mattina anche lui si chiede: dove siete tutti, o eroi di cui a lungo ho sentito raccontare e facevate di Itaca un nobile regno? Dov’è mio padre? Chi è mio padre? E così parte per cercare Ulisse. E il figlio non raccoglie testimonianze completamente positive sul genitore. Anzi. Il vecchio Nestore racconta che mentre lui dopo la guerra ha fatto con saggezza immediatamente rotta verso casa ed è arrivato sano e salvo, Ulisse ha voluto compiacere lo stolto Agamennone e lo ha seguito per compiere un’ecatombe che avrebbe dovuto placare l’ira di Atena, atto quanto mai inutile e scellerato. Insomma Nestore lascia intendere a Telemaco che se suo padre non è a casa come tutti gli altri è perché ha commesso qualche empietà di troppo. Eppure è il grande Ulisse, l’eroe dal multiforme ingegno, l’unico in grado di sconfiggere l’arroganza dei Proci e riportare saggezza a Itaca. È un grande padre, ma non è perfetto. E forse è proprio questo che lo rende grande.
Non era perfetto nemmeno Indro Montanelli che il giovane Paolo Di Paolo, novello Telemaco andò a cercare per capire dove erano i padri del Novecento. Un ragazzo del midwest romano scrive al grande giornalista che tiene una rubrica di lettere dal titolo La stanza sul “Corriere della sera”: lo vede come un eroe per il suo spirito libero, la scrittura brillante, guascona e chiara, pronta alla stoccata contro corrotti e prepotenti. Sono gli anni Novanta, debolissimi, dopo il pensiero debole degli anni Ottanta. E in quel panorama il grande giornalista gli sembra un gigante: “In un Paese più abituato dell’Italia all’epica, Montanelli sarebbe tra Hemigway e Truman Capote.” Poi una volta il giovane Paolo Di Paolo si firma Karl Marx, e Montanelli gli risponde sul giornale e gli telefona. E da lì il grande giornalista entra per sempre nella crescita del futuro scrittore. “Tutte le speranze” non è soltanto un libro su Montanelli, è anche il racconto di un percorso di formazione, di una ricerca di senso di un adolescente degli anni Novanta. Così in questo suo ultimo lavoro Paolo Di Paolo porta a compimento quella ricerca di padri, se non di nonni, iniziata in “Dove eravate tutti?”, continuata poi con “Mandami tanta vita” rievocando un altro grande come Piero Gobetti. Lo scrittore ha così tracciato la sua telemachia e ora può congedare i suoi Maestri: Antonio Tabucchi, Indro Montanelli, Lalla Romano, Piero Gobetti: “ho abitato da abusivo nelle loro certezze, perché avevo perso – o mai avuto – le mie. Ora mi sembra di vederli andare via, come i nonni. Il paesaggio che lasciano sembra vuoto, quasi fossero spariti gli dei”. Per un attimo il Di Paolo-Telemaco si sente solo, come se tutto il peso di combattere i Proci fosse su di sé. Poi si accorge che l’orizzonte non è vuoto ma aperto, da “guadagnare palmo a palmo”. Perché l’eredità che gli hanno lasciato, pur con tutte le loro contraddizioni e debolezze, è la strenua ricerca di una onestà intellettuale a qualsiasi costo. E una vocazione alla speranza: “hanno sperato sempre anche sbagliando; hanno sperato tutti dentro casa e nelle piazze. E noi? In cosa stiamo sperando? Soprattutto: stiamo sperando?”
È la speranza la cura per il Mal del Tempo? È lo strumento per elaborarlo e dargli un significato profondo. I Maestri-nonni-padri che si è scelto Paolo Di Paolo ne erano affetti anche loro: ma del sentirsi apolidi, estranei in casa propria, ne hanno fatto un punto di forza per la loro resistenza al grigiore del malaffare nostrano. Tabucchi lascia l’Italia e va a vivere a Lisbona ma da lì continua a scrivere strali contro il regno di Eliogabalo, come lui chiamava Berlusconi. Gobetti deve fuggire a Parigi perseguitato da Mussolini, ma vuole che suo figlio cresca in Italia, perché l’appartenenza al proprio Paese è un’anima, una storia, per quanto difficile, di cui far parte. Montanelli lamentava soprattutto negli ultimi tempi di non sentirsi più italiano, di avere solo il rimpianto di una Patria.
Queste eredità Paolo Di Paolo ora se le carica su di sé, chiude la stagione dell’apprendistato nelle botteghe dei Maestri e incomincia a camminare. Ma non è un percorso facile perchè l’elaborazione del Mal del Tempo porta a fare i conti con i mali del proprio tempo.
Ulisse è ripartito, come insegna poi Dante, e Telemaco ora è da solo a fronteggiare non certo i Proci ma beghe senza epica, da commedia all’italiana. “Tutte le speranze” è un libro dal cammino accidentato perché Montanelli è da rinnegare e dimenticare, suscita sdegni e invettive in un paese non più di partigiani ma di partigianerie: chi più alza il tono con polemiche, chi più divide, impera. Così, dicono, Telemaco si è cercato il padre, o meglio il nonno, sbagliato: Montanelli è stato fascista, anticomunista, pur turandosi il naso ha invitato a votare Dc, e all’inizio ha avuto anche simpatie per il Cavaliere, prima di sbattere la porta del Giornale e diventare il campione dell’antiberlusconismo di fine millennio. Nella palude morale del Belpaese, puntare il dito aiuta a sentirsi migliori, più puliti, o forse solo meno sporchi. E dunque si accusa Montanelli di essere stato misogino e ambiguo. Divulgatore di basso profilo.
Non gli si perdonano infatti i suoi volumetti agili di storia, dalla rilegatura in pelle per far bella mostra nei salotti di casa. Con una scrittura colorata di particolari divertenti, con toscano gusto dell’ironia, aveva narrato gli eventi del passato in modo accessibile a tutti, fatti lontani epoche potevano sembrar vicini ed esser capiti anche da chi aveva fatto solo la terza media. La storia scorreva leggera ma non superficiale in quelle pagine, alleggerita dai pesi accademici. Di Paolo racconta della sua giovane insegnante di Spagnolo a Salamanca entusiasta della Historia de los Griegos di Montanelli, letta con mucho gusto. L’operazione non piacque invece ai professori italiani perché Montanelli semplificava troppo, rendeva il passato un racconto popolare. Lo snobismo intellettuale in questo paese è sempre pronto a colpire.
Successe anche a me. Sono al primo anno di liceo, interrogazione di storia sulla Atene classica. Racconto di Pericle come se lo avessi incontrato appena ieri: lo descrivo affascinante, un po’ spaccone, irresistibile, arrivava nell’agorà e come apriva bocca conquistava tutti, non gli si poteva negare niente. Sono in piedi, parlo dal banco, gli altri seduti. Mi ascolta in silenzio tutta la classe, rapita: bello come mi seguono, è un’emozione che mi piace, forse è proprio lì che ho la percezione che da grande mi piacerebbe fare l’insegnante, per continuare a spiegare le cose a quel modo, e suscitare quell’interesse. È un attimo di incanto. Anche la professoressa compiaciuta ascolta, sorride un po’ divertita. Poi mi interrompe e mi chiede: – Dove hai studiato, nel libro non è spiegato così?” Io candidamente confesso che ho letto il ritratto di Pericle sulla “Storia dei Greci” di Montanelli, che mi ha dato babbo… La professoressa sorride, ma ora non è compiaciuta, ride di me, è un sorriso ironico di sufficienza su di me, il mio babbo, Montanelli, il quartiere da cui provengo (il liceo che frequento è ai Parioli, e ogni mattina prendo l’autobus presto, nel buio delle fredde albe invernali di Roma nord oltre il Raccordo). Dice qualcosa la prof del tipo che quella fonte non è attendibile, e che certe letture papà se le deve tenere per sé. Mi dà un voto più basso rispetto a quello che aveva in mente in partenza, ne sono certa. La magia è finita, mi rimetto seduta al banco con una tristezza vaga perché non riesco a capire di chi sia la colpa. Però poi da grande ho fatto l’insegnante anche per non essere mai come quella prof di storia.
Ma soprattutto si accusa Montanelli di essere è stato un colonialista: ha fatto da volontario la guerra fascista in Etiopia, lì ha avuto una sposa bambina e non ha sentito alcun Mal del Tempo, ma quella avventura scellerata, rimarrà per sempre nella sua mente, forse, il miglior tempo della sua giovinezza, un’epica illusoria. Come essere diventato improvvisamente il protagonista di uno dei romanzi di Kipling, l’autore più amato: quel miraggio di esotismo, quel sogno di ragazzo di esplorare terre lontane ora era lui giovane ventiquattrenne gettato a cavallo nella natura selvaggia a capo di un manipolo di Ascari, tra le dune d’oro del deserto. Un Lawrence d’Arabia. Da grande dirà che quella guerra era stata una stupidaggine colossale, ammetterà di essere stato un cretino a caderci con tutte le scarpe in quella retorica, ma invocherà la giovane età come attenuante. Riconoscerà poi malvolentieri la ferocia coloniale fascista con l’uso di gas nervini, perché nel suo sogno giovanile certe efferatezze proprio non c’erano. Si giustificherà goffamente di aver comprato una sposa dodicenne dicendo che in Africa all’epoca si faceva così, attirandosi addosso gli strali delle femministe.
E scrive Paolo Di Paolo raccontando del Montanelli coloniale: “So che dovrei dire che sbagliava, che si era nutrito di una retorica bolsa e colpevole, so che dovrei prendere le distanze. Ma, arrivato a questo punto del racconto, mentre gli eventi si sono allontanati, si è avvicinata la sua età alla mia. Qui Montanelli è un ragazzo di nemmeno trent’anni. Mi sembra di averlo ad un passo – la distanza che consente di posargli una mano sulla spalla, ma non di condannarlo. Se gli chiedessi: come guarderai, fra mezzo secolo al ragazzo che eri, a questo ragazzo che parte per l’impresa sbagliata?, sorriderebbe sicuro di non vergognarsene. E io? Come guarderò al giovane che sono stato?”. Lo ha spiegato bene Tabucchi che uno degli effetti del Mal del Tempo è il ritrovarsi nel rovescio: l’altro che diventa te. Ma qui si apre uno spazio molto fertile di conoscenza. Qui succede qualcosa che è la vera novità di “Tutte le speranze”: la storia guardata con gli occhi dell’empatia. Per cui, come già avvertiva chiaramente l’Italo Tramontana di “Dove eravate tutti”, capire è più importante che giudicare.
L’empatia significa mettersi in relazione profonda con lo stato d’animo di un’altra persona, o meglio, come dice Paolo Di Paolo, “specchiare il proprio destino in quello altrui, nel punto in cui il pericolo fa più pressione.” L’empatia fa diventare categorie analitiche degli eventi anche l’affetto e la tenerezza, senza che questo significhi alterare l’obbiettività, ma avvicinando a sé quei fatti anche con le modalità del sentimento. Non a caso proprio per dare voce a “Tutte le speranze” l’autore si sofferma ogni tanto a parlare dei propri cari, dei suoi nonni veri, perché poi tutto si tiene, è tutta vita da raccontare, da capire. È quello che siamo che viene da lontano. È tutto utile per interrogarsi sul nostro essere adesso e costruire il futuro.
Clicca qui per leggere la recensione al libro di Paolo Di Paolo scrita da Mario Massimo.