Il tesoro nascosto della poesia
Per dove passa il discrimine tra poetico e non poetico, e quale la chiave che dovrebbe consentire al lettore comune che non possiede gli strumenti critici, filologici degli addetti ai lavori – di cogliere la poesia in un testo, là dove c’è?
Tale quesito solleva una questione estetica cruciale, nodo irrisolto del dibattito teorico- critico sulla poesia e sull’arte in genere. É la questione crociana di “Poesia-non poesia”, che non si può liquidare con formule e formulette che “mondi possa aprirci”.
Milan Kundera, ne I Testamenti traditi parla dello spirito di continuità che contraddistingue le grandi opere in tutti i campi della creatività: la poesia, la musica, il romanzo, l’arte figurativa. Condizione necessaria, ma non sufficiente perché un testo possa definirsi poetico è la possibilità di collocarlo nella tradizione, nella storia della poesia.
La poesia non diverge dalla prosa soltanto per una specificità di scrittura; la poesia è linguaggio, come lo è la musica, con una sua grammatica, una sua polisemia e peculiarità ritmica, sonora; linguaggio che deve essere appreso, assimilato perché possa essere gustato.
Lingua delle origini che non ci è estranea, che ha a che fare con l’infanzia- le nenie, le ninnananne, le filastrocche non sono forme elementari di linguaggio poetico?- che ci è familiare, ma che con gli anni abbiamo dimenticato, rimosso, come si fa con le fantasticherie, le fole di leopardiana memoria.T
Tale prerequisito del poetare è venuto meno con l’affrancarsi della poesia del 900 da ogni vincolo metrico-formale, e con il suo sconfinamento nella prosa. Ponendosi al di fuori della propria storia e tradizione, la poesia è diventata una zona franca, terra di nessuno, con diritto indiscriminato di pascolo e di semina.
L’impalcatura stilistica che la conteneva, lungi dal comprimerne le possibilità creative, ne limitava i rischi di contaminazione con altri ambiti espressivi, la salvaguardava dalle insidie di un’effusività sena freni, di una vaga, adolescenziale sensiblerie, da quel poetico che niente ha in comune con la poesia e le sue stilettate. Da qui la necessità imprescindibile per la poesia di identificarsi all’interno della propria storia e tradizione.
Ma i prerequisiti della poesia, elementi necessari a renderla fruibile, riconoscibile come linguaggio non esauriscono il discorso sul suo unicum di espressività creativa. C’è un quid di ineffabilità nel discorso poetico che sfugge a qualsiasi definizione, qualcosa che ha a che fare con l’inconoscibile. Un nucleo inviolabile di mistero che non si lascia svelare.
Grandi, grandissimi poeti si dichiarano disarmati, impotenti a definire questo cuore segreto, pulsante della poesia.
La poesia è qualcosa che arriva da fuori, va e viene, vive e muore, quando vuole lei, non quando vogliamo noi, un po’ come la vita, soprattutto come l’amore (Goffredo Parise).
Wislawa Szymborska, poetessa polacca, Nobel per la letteratura 1996, nel discorso “Il poeta e il mondo”che pronunciò a Stoccolma, in occasione del conferimento del prestigioso premio, sostiene che il poeta in un mondo sommamente impoetico è restio a dichiarare la sua identità di poeta, quasi se ne vergognasse. Forse teme di suscitare incredulità e inquietudine, o prova orrore al pensiero che un baratro di solitudine gli si possa spalancare dinnanzi. E dei poeti parla come di un ristretto gruppo di eletti dalla sorte, visitati dall’ispirazione, come lo sono tutti coloro che non s’acquietano del già noto; non si stancano mai d’interrogarsi, di indagare, di guardarsi attorno e stupirsi di fronte allo spettacolo stupefacente del mondo: enigma che non si lascia decifrare. La poesia come stato di grazia, demone- il daimon platonico- di originaria innocenza, di estatico stupore dinnanzi al reale. Compito del poeta è di gettare uno sguardo nell’oscurità che ci avvolge, e non per farvi luce, ma per trarne fuori altra oscurità. Tutto ciò che a un occhio non poetico appare chiaro e distinto, alla vista del poeta si offusca di ombre, quelle ombre necessarie a dare risalto alla luce. Una luce senza ombre acceca, non aguzza la vista. Nel linguaggio della poesia non c’è niente di previsto, di consueto, di normale, di rassicurante. Ogni cosa, a osservarla da vicino con occhio da entomologo, quello con cui il poeta si accosta alla realtà, si ricopre di tenebre e di nulla.
Ogni testo poetico è dunque un’isola sconosciuta che può nascondere tesori da scoprire, e bisogna avere una qualche mappa per orientarsi e districarsi in percorsi non sempre facili da esplorare. La poesia spesso la si deve cercare in ciò che il poeta non dice, ma che sottintende, in ciò che il poeta nasconde, come si nasconde un tesoro.
La ricerca della poesia in un testo si configura come una vera e propria caccia al tesoro. Per scoprirlo questo tesoro nascosto, bisogna utilizzare tutti gli indizi che il poeta ci fornisce, ma non lasciarsi depistare da trabocchetti e ingannevoli scorciatoie che semina per via, perché al poeta piace giocare a nascondino, il poeta è un po’ bambino. Lancia il sasso e poi si nasconde, lasciandoci nell’incertezza, nell’ambiguità del senso.
Ma questo è poesia: la polisemia del suo linguaggio. La prosa esplica, il suo messaggio è diretto, la poesia lascia sospesi. Ciò non vuol dire che la poesia per essere tale deve risultare oscura, ermetica, per iniziati.
Una poesia che non comunica, che non getta ponti per raggiungere il lettore, una poesia chiusa in un’autoreferenzialità senza riscontri, non può dirsi poesia.
Il tesoro nascosto alla fine deve essere trovato; e se non si trova, vuol dire che non c’è.