Leone Ginzburg editore
L’acribia filologica in Leone Ginzburg fu precoce. Già a 13 anni scriveva al Corriere della sera per segnalare alcune imprecisioni contenute in un libro scritto da un esperto di cose militari, un generale che gli rispose credendo il suo interlocutore un illustre studioso.
Perfettamente bilingue, Leone, nato a Odessa in Crimea nel 1909, ma presto trasferitosi con la famiglia in Italia, frequentò a Torino il Liceo d’Azeglio, dove insegnavano due intellettuali antifascisti come Umberto Cosmo, noto dantista, in seguito fra i docenti universitari di Gramsci, e Augusto Monti. Tra i compagni di scuola: Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Carlo Dionisotti. La scuola fu il primo banco di prova per Leone che, secondo le diverse testimonianze, prima di tutte quella di Bobbio, sorprendeva tutti, docenti compresi, per la profondità e la vastità della sua cultura. Non si era ancora diplomato, infatti, quando nel 1927 iniziò a collaborare con la casa editrice Slavia di Torino fondata da Alfredo Polledro, traduttore dal russo. E per Slavia, a 19 anni, il giovane Ginzburg licenziò nel 1928 la traduzione di Anna Karenina, romanzo sul quale aveva scritto il suo primo articolo per il «Baretti», la rivista di Piero Gobetti. Dopo essersi iscritto a Giurisprudenza passò a Lettere, laureandosi su Maupassant. Nel frattempo aveva collaborato assiduamente anche alle riviste «La Cultura», diretta da Ferdinando Neri, «La Nuova Italia» di Codignola e «Pegaso» di Ugo Ojetti.
Un incontro decisivo di questi anni è quello con Benedetto Croce, forse all’origine del cambio di facoltà. Croce era in quegli anni, come ricorderà Bobbio nell’Introduzione agli scritti dell’amico, un autore fondamentale dal punto di vista metodologico prima che teorico: era tutto ciò che si opponeva al pressapochismo nel campo della cultura a favore della serietà degli studi. Ma Croce era anche il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti, in contrapposizione a quello di Gentile. Un articolo che uscì anonimo, ma è attribuito a Croce e Ginzburg, dal titolo «Note caratteristiche del Prof. Ercole», dileggiava le doti in virtù delle quali costui era diventato ministro dell’Educazione Nazionale. Tra le “fatiche di Ercole”, gli autori ricordavano la delazione ai danni dei docenti restii a piegarsi alla volontà del Partito fascista: «Nel suo nuovo posto il prof. Ercole ha ripreso il suo antico metodo, dimostratosi già tanto sicuro: non solo s’è prestato a soddisfare tutti i desideri del segretario del PNF, Starace, ma ha cercato di prevenirli e suscitarli, per apparirgli subito in veste di benemerito e zelante esecutore di ordini.» (Scritti. p. 25).
La maturazione politica di Ginzburg avvenne a Parigi. Nella capitale francese ebbe modo, infatti, di incontrare personalità che si battevano contro il fascismo, dallo stesso Croce, in quei giorni a Parigi, a fuorusciti come Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Gaetano Salvemini, Carlo Levi, Lionello Venturi. Al suo ritorno a Torino, quindi, s’impegnò in prima persona, costituendo, come scriverà l’OVRA che lo sorvegliava, «l’anima del movimento rivoluzionario di “Giustizia e Libertà”», attorno a cui si muovevano Pavese, Carlo Levi, Barbara Allason, Massimo Mila, e poi Vittorio Foa, Mario Levi (fratello di Natalia, futura moglie di Leone), Carlo Muscetta e Tommaso Fiore.
Già a quest’altezza, quindi, Ginzburg possedeva quelle qualità che lo caratterizzeranno nella sua maturità: intransigenza morale, forte senso dell’amicizia, urgenza dell’impegno politico a scapito di altre, pur nobili, esigenze, vastità di interessi. La sua breve esperienza universitaria espresse appieno alcune di queste istanze. A cominciare dalla prolusione con cui ottenne la libera docenza: Puškin e la cultura europea. Le sue riconosciute doti di slavista, su cui egli stesso puntava sin dal liceo, come abbiamo visto, non gli impedivano di allargare lo sguardo verso le altre culture europee, al di là dei cordoni di sicurezza tracciati fra le discipline: storia, letteratura, politica. Poi, ancora, il ponte fra la Russia e l’Europa, in particolare l’Italia del Risorgimento, il momento desanctisianamente più alto della storia italiana, riscatto doloroso dall’antico servaggio. Al Risorgimento Ginzburg restò fedele per tutta la sua breve vita: il suo ultimo scritto, pubblicato postumo (1945) dall’amico Muscetta, s’intitolava proprio La tradizione del Risorgimento. Non doveva essere estranea a tale scelta la riaffermazione della sua italianità, scippatagli nel 1939, allo scoppio della guerra. Se ne lamenterà con Croce in una lettera del 1 agosto 1943: «Le lascio immaginare, poi, il senso di malinconia e di rabbia che mi dà il continuare a essere considerato straniero nel mio paese».
Nel 1933, quando fu imposto ai docenti universitari di iscriversi al Partito fascista, fu tra i pochi a rifiutarsi. La via difficile, che scelse rinunciando a una sicura carriera, non lo portò tuttavia a tagliare i ponti con le vittime di quella adesione forzata: l’intransigenza non escludeva la pietà per chi presto avrebbe potuto sentir bruciare il rimorso di quel cedimento.
Troncata dunque sul nascere la carriera universitaria, Leone si dedicò all’attività editoriale e pubblicistica. L’intransigenza sul piano morale e politico si accompagnò in lui, com’è stato detto, a una “transigenza culturale”, sulla stessa linea di Edoardo Persico, il cui motto era: «Nessun compromesso con questi papaveri, in politica; in cultura compromessissimi sì» (d’Orsi, p. 317). Questo portò Ginzburg non solo a collaborare per la rivista «Pegaso» di Ugo Ojetti, intellettuale dichiaratamente fascista, ma anche ad accettare l’incarico di stendere alcune voci per l’Enciclopedia italiana diretta da Giovanni Gentile (con le voci “Pisemkij”, “Raskol’niki”, “Remizov” e due articoli più ampi su “Naturalismo” e “Realismo”), insomma a collaborare con quegli uomini che sul piano politico osteggiava apertamente. Quelle collaborazioni, del resto, non si realizzarono poiché nel 1934, Ginzburg, accusato di far parte del movimento Giustizia e Libertà, fu arrestato assieme ad altre 60 persone e condannato a quattro anni di carcere, poi commutati a due.
Ma poco prima di essere arrestato, Ginzburg aveva fatto in tempo a ideare alcune collane (la «Biblioteca storica», i «Saggi») per l’appena nata casa editrice Einaudi, fondata dall’amico Giulio nel novembre 1933, che all’inizio gestì la prosecuzione della rivista «Riforma sociale», diretta dal padre Luigi e acquistò, per iniziarne una nuova serie, la rivista «La Cultura». Dall’emblema che Mario Praz aveva scelto per quest’ultima pubblicazione, lo struzzo disegnato da Andrea Alciato per un’opera di Paolo Giovio, il Dialogo dell’imprese militari et amorose (1555), la casa Einaudi derivò il suo. Nel disegno l’animale tiene fra il becco un chiodo, prossimo a essere ingerito; una scritta ne esplicava il gesto: «Spiritus durissima coquit».
Il motto dovette essere ritenuto conveniente ai tempi dai fondatori della casa torinese. Ma fra la collaborazione del liceale Leone alla casa Slavia di Polledro e quella all’Einaudi, si collocava la sua partecipazione come consulente per la casa Frassinelli dove ad affiancarlo c’era Cesare Pavese, che dirigeva anche la rivista “La Cultura”. Il duo Ginzburg – Pavese, dunque, che caratterizzerà l’attività dell’Einaudi negli anni a venire, aveva già svolto il suo tirocinio nella breve ma significativa esperienza con Frassinelli. Ginzburg, tra l’altro, proverà in seguito a persuadere Laterza, tramite Croce, della pubblicazione della tesi di Pavese, oltre che del saggio su Verdi di Massimo Mila, ma solo in quest’ultimo caso ebbe successo.
Personaggio chiave di questa fase della vita di Ginzburg, che accompagnò, o meglio complicò, l’influsso del Croce, fu Santorre Debenedetti, la cui ricerca sui frammenti autografi dell’Orlando Furioso, egli aveva recensito nel 1937. A Debenedetti fu affidata la direzione della «Nuova Raccolta dei classici annotati», inaugurata da quello che sarebbe diventato un classico della filologia italiana, le Rime di Dante a cura di Gianfranco Contini. Debenedetti, che fece la conoscenza di Ginzburg in qualità di docente durante la discussione della sua tesi, intrecciò con lui un fitto carteggio negli anni del confino, tra il 1940 e il 1943. Forse non si esagera se si afferma che la sua figura, con l’attenzione alla filologia e alla storia del testo, attenuò il crocianesimo di Ginzburg, rendendolo meno assertivo.
Dal ’36 cominciò quel duro lavoro di revisore delle traduzioni, dal tedesco e, soprattutto, dal russo e, più in generale, di editor, che negli anni del confino per forze di cose s’intensificherà. Il legame duraturo con Croce, di cui si diceva, fu all’origine non solo di alcune traduzioni, commissionate a Ginzburg (le Weltgeschichtliche Betrachtungen di Burkhardt), ma anche di una notevole prova filologica: quella di allestire una nuova edizione critica dei Canti di Leopardi per la collana degli “Scrittori d’Italia” diretta dallo stesso Croce. La collana aveva già ospitato i Canti nel 1917, per le cure di Alessandro Donati; ma il progresso degli studi e l’edizione del Moroncini, uscita nel 1931, ne richiedevano il superamento. Il nuovo curatore rivide il testo, apportando delle modifiche al testo dato da Moroncini, parte delle quali ancora oggi riconfermate dall’ultima edizione di Gavazzeni. In una lunga appendice, dopo aver inserito il capitolo satirico I nuovi credenti, Ginzburg pubblica le dediche, le annotazioni e le varianti delle stampe. Chiude il volume una lunga nota filologica, in cui si ripercorre la storia editoriale della raccolta leopardiana. Tale pensum filologico avrebbe potuto inaugurare una serie di lavori più impegnativi se il confino, come detto, non avesse obbligato Leone, lontano dalle biblioteche, a un lavoro che non richiedesse spostamenti. Il suo ruolo di revisore divenne centrale nel suo lavoro, anche perché a Ginzburg già dal 1936 era stato vietato di pubblicare; dal 1939 perdette anche la cittadinanza, per cui, in qualità di apolide antifascista ed ebreo, fu dichiarato internato civile e costretto al confino a Pozzoli, in provincia dell’Aquila, fino al luglio del ’43. La severità nei giudizi, che inseriva persino nelle valutazioni più lusinghiere, divenne proverbiale e a volte fu causa di frizioni con Einaudi.
In realtà il suo parere era quasi sempre tenuto in considerazione, come dimostra il fatto che i difetti segnalati da Ginzburg nelle sue lettere fossero assenti dai testi poi pubblicati. A eseguire o far eseguire tali correzioni attendeva spesso Pavese, come dimostrano le note a margine con la sua calligrafia sugli originali delle lettere di Ginzburg, che segnalavano con la parola «fatto» l’avvenuta correzione. La casa Einaudi nella visione di Ginzburg doveva distinguersi per impeccabilità tanto nella selezione dei titoli quanto nella cura del testo, dalla prefazione alla lezione testuale, dai particolari grafici e ortografici al commento, che doveva essere sobrio e lontano dalla pedanteria.
I rilievi non escludevano lo stesso Croce, la cui Storia d’Europa Ginzburg accoglie con entusiasmo. A parte gli errori di stampa, si segnalano alcune inesattezze, quasi tutte espunte dall’autore nelle ristampe successive. Ad esempio: «A pag. 15 l’ortografia più razionale sarebbe Loris-Melikov. Mi permetto di raccomandarle il trattino fra i due cognomi, perché in russo usa così, e poi per togliere a molti l’idea che Loris sia un prenome. […] Il nome «cadetto» deriva dalle due iniziali «k» e «d» (ka-de), ma è parola d’uso familiare e giornalistico; «bolscevico» invece è la traduzione di maggioritario: sicché sarebbe forse desiderabile ch’ella rompesse il parallelismo ch’è in quella frase. I socialisti, nel 1903, s’erano divisi in maggioritari e minoritari: «bolscevichi» e «menscevichi», direi io, giacché la parola russa è bolscevi’k (menscevi’k) e facendola italiana ha da venir per forza piana. […]» [Lettera a Croce, 30 dic. 1931]
Tutti questi consigli vennero accolti nella prima edizione del 1932 o nelle successive. Ma c’è di più. Era tale la fiducia che Croce nutriva per Ginzburg, che questi gli fece da consulente per alcune questioni storiche o linguistiche, in vista della pubblicazione della Storia d’Europa e di altri saggi. Un caso ancora più significativo si verificò quando, in occasione della pubblicazione delle Occasioni di Montale, il poeta scrisse all’amico Leone che poteva scegliere lui la variante da adottare per la poesia Dora Markus: «Perché la seconda parte di Dora non fa pagina a sé? Forse avete seguito un criterio corretto, ma preferirei (se fosse possibile) il contrario… Vedi te…» [Lettera di Montale a L. Ginzburg, inviata prima della pubblicazione per Einaudi della seconda edizione delle Occasioni: Torino, 1940]. La molteplicità degli incarichi, per cui egli si trovò a lavorare contemporaneamente per Einaudi, Laterza e Treves, editore per il quale preparava dal ’34 la traduzione della Storia della rivoluzione russa di Trotskij, e l’attenzione minuta riservata ai testi altrui, fecero sì che Ginzburg, per conto suo incline a eludere la gabbia dello specialismo, non abbia mai affrontato un saggio di ampio respiro. In realtà, Ginzburg più volte ebbe l’idea di scrivere diffusamente intorno a un tema unitario: oltre allo studio sul Risorgimento, troncato, come detto dalla morte (ma di cui ci resta un importante capitolo), aveva ideato due monografie, rispettivamente su Dostoevskij e su Manzoni. Se la prima, concepita in età giovanile, fu ostacolata dal lavoro frammentario che abbiamo visto, oltre che dal carcere, il progetto manzoniano, a cui allude per la prima volta in una lettera a Croce dell’agosto ’36 si trascinerà fino agli anni del confino. Per la preparazione delle opere manzoniane, Ginzburg dovette raccogliere idee e materiali per un nuovo saggio interpretativo. Purtroppo l’abbozzo del saggio dovette andare perduto quando Ginzburg lasciò il confino e si trasferì a Roma per dirigere la sede locale dell’Einaudi e il giornale clandestino «Italia libera», nella cui redazione venne arrestato assieme a Manlio Rossi-Doria e Muscetta che, con Sandro Pertini, già in carcere, sarà suo vicino di cella. Altri, Mario Pannunzio, Franco Antonicelli, Ercole Patti, si trovavano ai «Parioli», come venivano spiritosamente definiti i piani superiori della galera romana. Qui, secondo la testimonianza di Claudio Pavone e dello stesso Muscetta, dopo l’8 settembre le porte delle celle erano state scardinate dai rivoltosi. In tal modo, almeno di giorno, i detenuti potevano uscire. Ma a volte anche di notte si poteva sgattaiolare fuori per ascoltare lezioni e dibattiti organizzati da Ginzburg, secondo le migliori tradizioni carcerarie: Muscetta discettava su Manzoni (si conservano i suoi appunti su don Abbondio), Rossi-Doria teneva un dibattito sull’agricoltura italiana, Ginzburg ritornava al suo Dostoevskij. Una guardia benevola disse: «Voi siete i futuri ministri»: il che non è lontano dal vero se si pensa che fra i carcerati c’erano Pertini e Saragat. Ma quel manipolo di amici che, nell’inverno del ‘44, memore forse dello struzzo di Alciato, continuava la tradizione umanistica italiana dietro le sbarre di un carcere, avrebbe rappresentato anche il meglio della cultura italiana del dopoguerra. La breve vita spezzata di Leone, come quelle di Pavese, di Gobetti e di Gramsci, con la loro eredità morale e culturale, non si spense di colpo e agì in profondità nelle migliori intelligenze del paese.
È allora per una strana ironia, che nell’ultima ristampa einaudiana (2007) del primo importante lavoro di Ginzburg, la traduzione di Anna Karenina con cui egli, diciannovenne, inaugurò la sua carriera di slavista, l’epigrafe biblica in cima al testo («Mihi vindicta: ego retribuam»: Deut. XXXII, 35) appaia sfigurata da un refuso che il meticoloso correttore odessita non avrebbe esitato a definire “orripilante”: «retribuan», anziché «retribuam». Forse anche questo un segno dei tempi.