La nuova edizione delle “Satire” di Orazio
Recensione della nuova edizione delle “Satire” di Orazio.
Un noto aforisma di Freud recita così: «Scherzando si può dire tutto, anche la verità». Giusto: sia perché è molto facile nascondere le proprie opinioni, quando troppo difficili da diffondere esplicitamente, dietro lo scudo giustificatorio dello scherzo (e probabilmente a questo alludeva lo psicoanalista austriaco); sia perché l’energica forza dell’ironia va oltre le apparenze, colpendo la verità dritto al cuore, quando sapientemente indirizzata. Del resto, di un simile avviso, in merito alla capacità conoscitiva e demistificatoria del “riso”, era uno dei più grandi poeti latini, Orazio, che tra il 35 e il 30 a.C. pubblicò i due libri delle sue Satire, nella prima delle quali ebbe proprio a dire: «Quamquam ridentem dicere verum quid vetat?» (sebbene, di dire ridendo il vero, che cosa vieta?). Una domanda che posta nel componimento iniziale suona come una dichiarazione d’intenti, una presa di posizione nei confronti della materia poetica. Il vero cui allude è qualcosa di fastidioso, da tenere lontano da sguardi indiscreti, e la risata non è un puro gesto fine a sé stesso, ma un tentativo intellettuale di andare oltre la superficie, una «riflessione multiforme, talora pungente ma quasi sempre controllata, sulla vita delle persone e sulla società: una riflessione fatta ridendo», come ci dice Lorenzo De Vecchi nell’Introduzione a una nuova e aggiornata edizione delle Satire recentemente licenziata da Carocci e da lui stesso curata e tradotta.
Il lavoro di De Vecchi, condotto sulla base dell’edizione critica di Klingner dalla quale si discosta solo in alcuni punti opportunamente discussi nel ricco commento, restituisce la figura di un poeta disposto ad ascoltare la poesia, ad imparare e a conoscere attraverso di essa intessendo un fitto dialogo con la parola e con il lettore, al quale si rivolge proponendo modelli, strategie, mettendogli a disposizione la sua conoscenza lontano da ogni atteggiamento di pedantesca altezzosità. La leggerezza con la quale Orazio compone i suoi esametri è strettamente complementare ai principi dell’autarkeia (indipendenza) e del metriotes (senso della misura), due virtù che mantengono l’autore in una posizione di equilibrio, a stretto contatto con una libertà dalla quale non vuole separarsi, al di fuori di sussiegose logiche dogmatiche e autocelebrative: «La prova più evidente di ciò sta nell’autoironia di cui Orazio è maestro, nella leggerezza con cui ogni tema serio è sdrammatizzato, nell’ammissione dei propri limiti e nel riconoscimento dei propri debiti verso gli altri».
Ma nonostante il poeta tenda verso questa stabilità, una serie di problemi si presentano di fronte alla complessa organizzazione dei materiali e dei temi propri di ciascuna satira. Il primo libro dell’opera è costituito da dieci satire, il secondo da otto: tradizionalmente gli studiosi hanno cercato di reperire corrispondenze interne e ripetizioni di nuclei tematici per ricostruire nel modo più preciso possibile la struttura disegnata da Orazio per i due libri. Per quanto concerne il primo, De Vecchi, nell’Introduzione, si discosta da quella tendenza critica che vuole una divisione in tre gruppi delle prime nove satire (con la decima avente il solitario compito di abbassare il sipario), accettando come unico gruppo quello delle prime tre, dove domina un comune spirito dialogico e moralistico, per poi abbandonare Orazio ad una completa libertà. La varietà delle altre sette satire rende impossibile qualsiasi classificazione, e proprio in ciò, in questo continuo rinnovamento, risiede l’unità. Anche nel secondo libro, composto in un momento in cui la vita sociale di Orazio è ampiamente sviluppata all’interno del circolo di Mecenate, è la varietà a fare da padrona, sebbene una notevole omogeneità venga offerta dall’uso del dialogo (tranne nella seconda e nella sesta satira) e dal tema del cibo. Questi esempi servono a De Vecchi a sottolineare quanto importante sia nell’orizzonte creativo di Orazio il concetto di variazione e quanto l’instabilità acquisti, infine, una sua coerenza. Nello spaziare, con piglio ironico, tra temi e personaggi sempre diversi, e nel dare una rappresentazione di sé in costante mutazione, tra pregi e difetti, tra solidità ed autoironia, viene scongiurato il pericolo di scivolare nel dogmatismo attingendo a una «coerente varietà». La figura proposta dalle Satire è dunque quella di un intellettuale che non ha paura di rivolgere l’ironia anche contro sé stesso, sicuro della forza critica e rivelatrice del comico; un atteggiamento che ancora oggi ha molto da dire al pubblico dei lettori.