“Il casale”: intervista a Francesco Formaggi
Intervista a Francesco Formaggi, autore del romanzo d’esordio “Il Casale”, pubblicato da Neri Pozza e uscito poche settimane fa.
Ho avuto la fortuna di conoscere Francesco Formaggi, prima dell’uscita del suo primo libro, Il casale (Neri Pozza, 2013), in una sera primaverile. Mi parlò del suo romanzo, dell’imminente uscita, di come fosse stato partorito.
Con l’amico in comune che ci aveva presentato, Giuseppe Truini, scrittore anch’egli, ne abbiamo parlato molto nelle settimane successive. Quando abbiamo avuto tra le mani il suo lavoro, abbiamo iniziato a commentarlo, con la minuzia che si deve ai grandi romanzi.
Ciao Francesco, grazie per l’intervista. Finalmente abbiamo tra le mani il tuo libro. Me lo sono letto, divorato. Un’opera importante, ambiziosa, matura. Se non me lo dicessero non ci crederei che si tratta del tuo primo romanzo. Ti premetto che il tuo libro mi è piaciuto e mi è piaciuto molto ma ti devo confidare che ci ho messo un po’ ad entrarci dentro. Non sono abituato all’uso ossessivo (anche se perfetto) del passato remoto, il gusto voyeuristico del dettaglio, l’andamento circolare e cerebrale di ogni passaggio. Eppure poi trovi la formula giusta e tutto ti appare lineare. Come definiresti il tuo romanzo? Davvero io non saprei in quale categoria di genere infilarlo.
A mio parere è una mancanza significativa, la stessa che ho io e mi ha condotto nella composizione quando ho iniziato a scriverlo. L’unico genere al quale Il casale appartiene è il genere “romanzo”, e questo per un motivo preciso che riguarda la forma. Mentre i così detti “generi” letterari (che poi sono sottogeneri del romanzo, come il giallo, il noir, il rosa ecc.) hanno per propria costituzione una forma stabilita e dei canoni e delle regole, anche a livello di composizione narrativa, il romanzo inteso nella sua originalità si distingue da tutti gli altri veri generi letterari (poesia, epica ecc.) perché si dà da sé una forma, perché insieme al suo contenuto immaginifico costruisce una sua forma ogni volta differente, e quindi per sua natura è privo di regole formali. Questa almeno è l’idea che ho io del romanzo, che è un po’ l’idea del romanzo delle origini (Cervantes, Rabelais). Il romanzo nasce come una forma d’arte che mescola e ravviva e reinventa, spesso anche in senso parodistico, gli altri generi letterari. Ogni tentativo di comprensione, da parte della critica letteraria, che sottendesse la volontà di ingabbiarlo e intrappolarlo e quindi fargli perdere vitalità, si è dimostrato nullo. Negli stessi anni a metà del 900 in cui gli studiosi dalle loro cattedre decretavano la morte del romanzo, veniva pubblicato uno dei romanzi più ricchi e significativi del 900, Cent’anni di solitudine.
Il casale è un semplice romanzo. Non sapere dove collocarlo all’interno dei sottogeneri letterari che oggi usiamo come paradigmi per facilitarci la vita, a mio parere è un punto di forza. La stessa distinzione che si fa tra narrativa letteraria e narrativa di consumo non è totalmente calzante, perché il romanzo inteso in senso puro, come prodotto di un’arte particolare con una sua storia e una sua particolare fenomenologia, non è soltanto un fatto di narrativa, sia essa alta o di consumo; scrivere romanzi non significa solo “raccontare una storia”, altrimenti potremmo raccontare tutte le storie che vogliamo e avrebbero uguale valore. Non voglio qui dire che esiste una ricetta speciale e non voglio portare avanti nessuna particolare teoria del romanzo. Voglio solo dire che il romanzo è un’arte che ha origine dall’uomo, dall’essere umano, dalla sua realtà, e verso l’essere umano dovrebbe tendere. Amo quei romanzi che hanno in sé l’istinto dell’esplorazione dell’esistenza, quelle storie in cui sono vive le domande: chi siamo?, cosa facciamo?, cosa siamo diventati?, quei romanzi che hanno in sé il coraggio della scoperta e si gettano nella corrente e remano come forsennati per cercare di capire dove porta il fiume, e cosa c’è oltre la siepe.
Il protagonista scopre un dettaglio fisico, osceno, della ragazza che non aveva mai notato, un alluce deformato, e inizia a sentire cattivi presagi. Poi segni e ancora segni, fino alla catastrofe. Il casale, luogo dove si svolge in un breve lasso temporale tutta la storia, è metafora di che cosa?
Non è una metafora. Il casale è soltanto il luogo fisico dove accadono gli eventi della narrazione, nient’altro. Se fosse metafora di qualcosa significherebbe che da parte mia ci sia stata l’intensione di rimandare “ad altro” il significato vero della vicenda, “altro” rispetto a ciò che si racconta, rispetto ai personaggi che popolano al storia (una verità umana? un precetto morale?). No. Questa intenzione non c’è. La metafora contiene in sé l’istinto all’allontanamento, alla distanza: ti racconto dell’albatro ma in realtà ti sto parlando del poeta. No. Nel mio romanzo, quando si parla di albatro si parla di albatro; quando si parla di alberi si parla di alberi; quando si parla di violenza si parla di violenza, quando si parla di sesso si parla di sesso. Se c’è un istinto che ho seguito è stato quello di arrivare al cuore delle cose, a ciò che le cose sono in quanto tali, senza deviazioni: puntare dritti al cuore delle cose, alla loro natura, e raccontarle per ciò che sono.
Se vogliamo invece rintracciare un significato altro per la scelta di ambientare il romanzo in un casale, allora posso dire (e questo l’ho capito solo a posteriori) che sono nato e cresciuto in un paese di duemila abitanti arroccato su una collina in provincia di Frosinone, un posto dove per arrivarci ci sono quattro chilometri di strada tutta curve in salita. Se non ci vuoi andare a posta non ci arrivi, e per questo è isolato. Questo fatto della mia vita, questa mia verità esistenziale – mi sono reso conto dopo – ha determinato il mio modo di vedere il mondo e di conseguenza il mio modo di concepire le storie e di costruirle. Ho la tendenza a infilare i miei personaggi in situazioni claustrofobiche, di chiuderli in un posto isolato e farli muovere. Non so perché. Forse ha a che fare un po’ con l’idea che i luoghi chiusi, i micromondi, rispetto ad ambienti aperti e dispersivi, riescono ad avere un ruolo più attivo ed evidente nelle storie delle persone, ovvero fanno da catalizzatori di eventi. Ma ripeto: di questa tendenza mi rendo conto solo adesso; mentre scrivevo il libro non lo sapevo, anche perché ho iniziato a scriverlo sei anni fa (in prima stesura) nella mia camera a casa dei miei genitori, quindi dal centro di questo micromondo che è Sgurgola, il paese dove ho trascorso la mia infanzia.
I personaggi sembrano muoversi come spinti da fili invisibili. Quella che vuoi mettere in scena è la grande farsa della vita umana?
In una versione del romanzo precedente, prima del lavoro di riscrittura e editing, c’era una frase pronunciata da un personaggio, forse proprio da Francesco, il protagonista, che definiva ciò che stava accadendo come una “gigantesca commedia dei gesti”. E poi anche un’altra, un paragrafo intero, in cui lui descrive un fatto metaforicamente: “Mi sforzavo di considerare l’accaduto da una prospettiva impersonale, ma non ci riuscivo. Mi venne perfino il sospetto che ciò che avevo visto fosse una farsa, una montatura bella e buona, che tutta quella storia non fosse altro che una stupida farsa, come quando assisti a una rappresentazione teatrale mal riuscita e ti contorci sul sedile e per tutto il tempo non fai altro che pensare a come avresti potuto spendere il soldi del biglietto altrimenti.”
Quindi sì, volevo mettere in scena la farsa della vita, la beffa, e anche prendere in giro gli stereotipi, prendere in giro gli stessi sottogeneri letterari, parodiarli un po’ se vogliamo. Senz’altro stava nelle mie intenzioni quando mi sono messo a scrivere.
L’epigrafe iniziale, esattamente la seconda, riprende una frase di Gombrowicz. A mio avviso c’è molto, in questo libro, delle sue atmosfere e dei suoi procedimenti. Mi sbaglio? Hai qualche debito con la sua opera?
Un forte debito e un forte amore soprattutto per due opere: Ferdidurke e Pornografia. Partiamo dalle atmosfere. Io sono nato e cresciuto in un paese, quindi tra piazze che affacciano sui panorami inaccessibili e lontanissimi della valle e vicoli stretti e case di pietra. Ma la mia famiglia, come tutti dalle mie parti, ha una casetta in campagna con la vigna e l’orto e il frutteto dove i miei nonni lavoravano la terra e facevano il vino. I miei ricordi di infanzia sono legati a questo luogo, a questa terra e a questa casetta, che si trova ad Anagni, in provincia di Frosinone, e sorge accanto al casale di Villa magna, un antico casale nobiliare. Tutto questo è sempre appartenuto alla mia vita, la campagna, i campi, gli animali, ma è sempre rimasto sopito. Poi un giorno, intorno ai venticinque anni, attraverso l’opera teorica di Milan Kundera, mi sono imbattuto in un libro di Gombrowicz, Ferdidurke, e poi in un altro suo, Pornografia, ed è stato come se uno sconosciuto mi avesse indicato la via di casa.
Sono romanzi, soprattutto Pornografia, dove l’ambientazione campestre è essenziale e non solo come elemento scenografico. Gombrowicz, per venire alla questione dei procedimenti che sollevavi nella domanda, mette in scena la vita esasperando le opposizioni esistenziali di alto e basso, di giovinezza e vecchiaia, di forma e vita, di brutalità e gentilezza; è un vero maestro di esasperazione del reale. Lui ingigantisce, è un maestro di maschere: gonfia così tanto i fatti (anche un fatto minimo e apparentemente insignificante), e i comportamenti abituali dell’uomo, da rendere evidente la perversione sottesa alla nostra natura di esseri umani. Pornografia è un romanzo costruito a partire da un microevento perverso, si può dire da una follia voyeuristica del protagonista: a un certo punto Witold, che è anche la voce narrante, quasi per caso nota che tra due giovani, un ragazzo e una ragazza, c’è una forte attrazione fisica e sessuale. E’ una cosa così lampante per lui che si meraviglia del fatto che i due ragazzi stessi non se ne rendano conto. E così, insieme al suo compare di viaggio, inizia a farli avvicinare, sempre di più, con lo scopo di far sì che il ragazzo e la ragazza realizzino la loro potenziale attrazione.
Queste storie di segreti e intrecci familiari rimandano a certa cinematografia d’autore, intrisa di filosofia e poesia. Poi però sovrasta il thriller e a volte persino il grottesco. Dove ti trovi più a tuo agio?
Mi trovo a mio agio lì dove le varie intenzioni e i vari modi di fare una storia si incrociano e si intrecciano e vanno a sbattere l’uno contro l’altro; dove la multiforme natura dell’essere umano, l’essere poetico, l’essere grottesco, la parte più filosofica e concettuale, e poi l’aspetto della brutalità del male e la bruttezza intima del grottesco si mescolano a formare individui complessi e quindi storie variegate e il più possibili piene di vitalità.
Una dei personaggi, Clara, agisce spesso senza senso. Eppure sembra la creatura più limpida, più pura (nonostante il passato sulla strada). Perché la scelta di farla esprimere attraverso i versi, attraverso la poesia?
E’ stata una scoperta casuale per me il fatto che Clara scrivesse biglietti in versi per comunicare con il protagonista. Volevo creare un collegamento tra loro due fin dall’inizio del romanzo, un primo accenno di rapporto umano, e allora mi sono chiesto chi fossero l’uno per l’altra e cosa potessero volere l’uno dall’altra. In questo modo mi sono accorto che Clara voleva attirare l’attenzione di Francesco – più per farselo complice che per altro – come se in lui avesse visto qualcosa di diverso che poteva accomunarli; ma non poteva farlo esplicitamente, ovvero: Clara non poteva instaurare un rapporto chiaro con lui, perché non ne è capace, non è nella sua natura, e così resta nell’ambiguità, e invece di dirgli chiaramente ciò che vuole, glielo scrive attraverso la poesia, che è anche un modo per dire: ehi, non sono quello che sembro, se guardi bene, c’è molto di più sotto la superficie.
In quarta di copertina si legge come il tuo libro sia stato accolto come “romanzo americano”. Sei d’accordo? Cosa c’è di americano nella tua narrazione?
Credo che di americano ci sia la tendenza a creare delle scene asciutte, a eliminare i fronzoli, a guarnire il meno possibile la prosa per arrivare a dire le cose come stanno, quindi l’idea del minimo strutturale: usare il minor numero di parole possibili per arrivare al massimo effetto. E poi probabilmente l’idea di “mettere in scena”, di “mostrare” e di creare quelli che in poesia Elliot chiamava i correlativi oggettivi. Credo che sia questo. Anche se alcuni amici hanno detto che è più inglese che americano, per l’ironia, e altri che è più mitteleuropeo. Insomma, gli puoi mettere addosso tutti i vestiti che vuoi: Il casale andrà sempre in giro con estremo imbarazzo, come fosse nudo.
Ci racconti l’iter che ha portato alla pubblicazione del libro? Sei contento dei primi riscontri di critica e di vendita? Hai in mente di proseguire su questo filone?
L’iter è stato lungo e spesso tortuoso. Ho iniziato a scrivere il romanzo dopo la laurea in filosofia, nel 2007. Volevo fare lo scrittore da sempre e mi sono messo sotto a lavorare per diventarlo sul serio. Quando ho finito di scrivere la prima versione il romanzo si chiamava Birignao e non mi convinceva molto. Era chiaramente il primo tentativo di un dilettante. Così l’ho spedito a qualche casa editrice minore, ma ero pieno di imbarazzo e non avevo la minima grinta. In realtà non ero pienamente soddisfatto e mi dicevo: quando qualcuno mi chiederà di rimetterci le mani, allora lo riscriverò e lo migliorerò; per adesso pensa ad andare avanti: vuoi scrivere?, allora scrivi. Scrivere – scrivere romanzi, creare un’opera letteraria – non è pubblicare. Scrivere è un’esigenza interiore di realizzazione di sé, e prescinde da tutto, soprattutto da ciò che accade “fuori”. Quindi, dopo aver finito il primo, ho iniziato a scrivere un altro romanzo. Nel frattempo facevo i soliti lavoretti per mantenermi, cameriere, commesso ecc. Sapevo che prima o poi sarebbe successa qualcosa: non so se la legge del caos sia vera o no (la storia che un battito di ali in Cina determini un urgano in America) ma la mia passione per la scrittura, per i libri, per i romanzi, era così enormemente grande e spropositata che non poteva non modificare le mie circostanze, almeno, quelle in cui mi trovavo a vivere. E allora è accaduto che ho iscritto il mio primo romanzo, l’unico che avevo finito, a un concorso letterario sul web e la Scuola Holden mi ha dato il premio “creatività”, che è una sorta di premio della critica, il quale mi ha permesso di partecipare a Esor-dire, un evento molto importante in Italia di scouting letterario dove gli autori hanno la possibilità di incontrare gli editor, gli addetti ai lavori. Lì ho incontrato la mia agente, Maria Cristina Guerra, e la mia agenzia, la Thesis Contents. Loro mi hanno chiesto se volevo mettere a posto il mio romanzo, perché aveva buone potenzialità, e io ho etto: stavo aspettando che qualcuno me lo chiedesse. Dopo due anni da quel giorno, dopo una montagna di lavoro sul testo e sulla struttura del testo, Birignao è diventato Il casale e adesso è in libreria pubblicato da una della case editrici più prestigiose e attente e vere, direi, che ci sono in Italia, la Neri Pozza, in una collana che ospita alcuni tra gli autori contemporanei più importanti al mondo, da Tsiolkias a Koch a Nevo a Ferris a St Aubyn.
Grazie per l’intervista, in bocca al lupo per questo primo “viaggio”.
“Il casale” – Leggi la recensione
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