“Il fumo bianco” di Renzo Paris
Recensione di “Il fumo bianco” (Elliot, 2013) di Renzo Paris.
È indovinatissimo il nome dell’ultima raccolta poetica di Renzo Paris uscita da qualche mese con Elliot. Poesia dopo poesia, verso dopo verso, ci sembra di vederlo questo fumo bianco.
Un fumo che si alza, verte a destra poi a sinistra, diventa epifania dell’oggi, ricordo, ponte tra passato e futuro. Un fumo che avvolge il poeta, l’uomo maturo, il padre di famiglia, il nido stesso in cui nascondere/nascondersi e proteggere/proteggersi.
L’incanto antico della pennellata poetica ridipinge più di venti anni di scritti, elaborazioni, pensieri. Se la voce di Album di famiglia sembra non cambiare, è il mondo tutto intorno a cambiare. La storia ha riempito e svuotato tutto tra il 1990 e 2012, alfa e omega di questa raccolta, ma non l’andamento del suo verso, il procedimento volutamente antilirico, sapientemente inesatto, persino “paterno” con cui crea il suo correlativo oggettivo.
L’humus alla base di tutto è la superficie accogliente della famiglia, come se questa raccolta fosse un continuo discorso diretto con i propri cari – che siano della sfera familiare, amicale o lavorativa poco importa – capace di resistere all’implosione che esso può produrre.
Oltre il fumo ci sono le immagini della propria quotidianità, c’è la vita stessa. È dentro il fumo che bisogna invece cercare: come in un minuscolo intertizio tra pareti resistenti, è l’uomo – nella sua fragilità – a rimanerne invischiato.
Anti-distopica ma non utopistica la poesia di Paris è immersa nel reale, nella materia umana, nella pasoliniana religione del tempo.
Terzina dopo terzina il mondo di Paris spalanca le proprie porte. Il proprio stare al mondo con gli occhi di un uomo “né giovane né vecchio”; i luoghi (“i palazzi umbertini”, “la gazzarra del parchetto Tiburtino”, le “ville sul mare”, gli orti, i castelli, gli spazi salvati della latinità); lo scambio generazionale quando insieme ai figli si fuma “un po’ d’erba buona” ridendo del mondo; le donne e la madre; l’amore per la classicità e per il ciclo naturale ; gli amici andati (bellissima la poesia dedicata ad Amelia Rosselli con “il suo volo per risalire”); il tempo che passa; il mistero stesso della vita.
Paris interagisce col mondo, è figlio al tempo stesso del suo tempo e di questo. Non lo sfiora la liquidità, è uomo di sostanza, di materia, anche quando s’innalza – anche solo seguendo come un girovago i numi tutelari della classicità – al trascendente.
Poesia e prosa si scontrano e soprattutto si incontrano nel susseguirsi dei morfemi, come nella migliore tradizione degli anni sessanta e settanta (Fortini, Pavese, Pasolini,) ma con meno malinconia e minore divario intellettuale tra il poeta e il groviglio di uomini e donne che gli si presentano al cospetto del quotidiano.
Non sono così diversi, in fondo, i cortei degli anni di piombo e quelli di oggi, la giovinezza e la vecchiaia. Alla fine tutto è in formato ridotto, elegantemente ridimensionato e rimesso a posto: «Sono un Amleto formato mignon / non c’è tragedia nella mia vita».
La crescita dei figli o la perdita degli amici può creare nostalgia non dolore.
È una dolce malinconia, un’evanescenza, un fumo non cupo ma bianco, appunto, bianchissimo, persino lucente nei suoi chiaroscuri.