“Poesie di una vita” di Pablo Neruda
Recensione di “Poesie di una vita” di Pablo Neruda (Guanda, 2012).
Pablo Neruda, una delle figure centrali della poesia moderna, negli anni è stato amato, mitizzato, affossato, banalizzato e, infine, rivalutato. Per celebrare il grande poeta cileno, a quarantenni dalla morte, Guanda ha ristampato l’antologia Poesie di una vita, introduzione di Roberto Carifi. Il titolo, tuttavia, potrebbe indurci in inganno; tanto è vero che non si tratta dell’opera omnia del grande scrittore sudamericano, bensì di una scelta di testi atta a riprodurre le tematiche, le vicende e la poetica dell’autore cileno. Il libro è diviso in sette sezioni poetico-semantiche (Ma l’amore non è finito, La vita il tempo, i dolori, La lotta e il sogno, Il canto della natura, America, Non c’è oblio e Testamento) nelle quali il lettore compie un viaggio ideale nella vita e nella vasta produzione di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. In Ma l’amore non è finito, troviamo le indimenticabili poesie d’amore che l’anno reso celebre, comprese le Venti poesie d’amore e una canzone disperata. Si tratta di un amore passionale, viscerale e carnale. Neruda conosce bene le donne, padroneggia perfettamente l’erotismo e l’amore in tutte le sue accezioni, dalla vita quotidiana al sensualismo, dalla seduzione all’abnegazione verso la compagna che ha scelto per condividere la vita. Nella seconda sezione, viene dato molto più spazio alla quotidianità; il nostro poeta s’interroga sulla natura che lega i fatti e le cose e ogni oggetto assurge a metafora di un determinato aspetto dell’esistenza ma, si badi bene, che non si tratta della poetica del correlativo oggettivo, bensì un empirismo nudo e crudo riconducibile al vissuto di ognuno di noi. Nella terza sezione emerge l’idealismo del poeta, sensibile alle differenze sociali e alle sofferenze del proprio popolo, un idealismo non fine a se stesso ma sostenuto con la lotta e l’impegno politico in prima linea. Ne Il canto della natura, il Premio Nobel del 1971, ci regala due tra le più belle odi che siano mai state scritte, Ode all’oceano e Ode all’autunno. Neruda conosce la natura come se stesso, sa leggerne i segni, ripercorrerne le rotte e capirne i misteri e se è vero che la natura è il tempio in cui trarre ispirazione, lui ne è indubbiamente il sacerdote. Neruda conosce la forza delle immagini, il peso delle parole e sa ricreare situazioni talmente evocative da riuscire ad arrivare al lettore, nonostante il depauperamento semantico operato dalle traduzioni. In America, assistiamo a un canto a tratti malinconico, a tratti realistico ed elegiaco al contempo, indirizzato alla terra amata. L’itinerario che ci offre la sezione è quello dei luoghi più cari al poeta, come il mare del Cile, le campagne e i fiumi del Nuovo Mondo. In Non c’è oblio, assistiamo a un Neruda inedito, tra il disilluso e il disperato, a un uomo che si guarda allo specchio e fa i conti con la realtà e con la storia, sia individuale che universale. Memorabili e toccanti sono l’Ode a Federico Garcia Lorca, amatissimo amico morto durante la Guerra Civile, e il componimento La condizione umana. Nella sezione conclusiva, Testamento, lo scrittore s’interroga sulla condizione umana, sulla precarietà del vivere e analizza, con oggettività e un’ombra di malinconia, il valore della vita e della morte, il senso del viaggio terreno che ognuno di noi compie nella consapevolezza della finitudine e del dolore che esso comporta.
“ Compagni, seppellitemi a Isla Negra,
di fronte al mare che conosco, a ogni superficie rugosa
della pietra e delle onde che i miei occhi perduti
non rivedranno più.”